In coma per 4 anni, poi la scomparsa: la dura ripartenza di marito e figlio
Luca e Mattia, di Brignano Gera d’Adda, in ricordo di Viviana hanno creato un progetto per chi ha un familiare in stato neurovegetativo.
A volte l’amore è una carezza leggera, un silenzio, un respiro. È, semplicemente, restare lì, accanto, senza parlare. È tenere le mani colmando con un gesto il buco nero dell’incertezza, la lontananza profonda della malattia. Neppure la morte può spezzarlo, perché «più forte della morte è l’amore» come dice il Cantico dei Cantici. Accade piuttosto che si trasformi in un seme e inaspettatamente germogli. È questa la storia di Luca Nisoli di Brignano Gera d’Adda e di suo figlio Mattia, 12 anni. Ne sono passati otto da quando hanno perso Viviana, madre e moglie amatissima. Lei soffriva di una grave malattia, l’idrocefalo, un accumulo di liquido nel cervello, era già stata operata, ha avuto una ricaduta. Nonostante la corsa all’ospedale e l’intervento tempestivo è finita in coma neurovegetativo, ed è rimasta in quella condizione per quattro anni prima che sopraggiungesse la morte.
Luca ha raccolto la sua esperienza in un libro con l’aiuto della scrittrice Paola Turrioni: «Ti dico la verità. Un uomo racconta a suo figlio come è diventato padre» (Lindau), poi ha creato il «Progetto Mattia» per aiutare altre famiglie, che abbiano una persona in stato neurovegetativo, è diventato volontario di Casirate Soccorso, gruppo della Protezione Civile, ha appena iniziato il corso per volontari soccorritori e suona la batteria nella band «Quasi blu». Mattia è ancora piccolo ma partecipa a tutte le attività del padre, e viceversa. «Siamo una squadra» sorride Luca.
Un limbo, una terra di mezzo
Ha deciso di raccontare la sua storia come mezzo di informazione e sensibilizzazione sulle condizioni delle persone in stato neurovegetativo: «Quando è successo se ne parlava poco, e anche oggi resta un argomento poco conosciuto. Si parla di persone in coma ma non si capisce che cosa significhi, finché non accade nella tua famiglia. Ci si ritrova soli, smarriti in una terra di mezzo, che non è vita né morte ma una sorta di limbo molto diverso per ognuno. Ho pensato a una testimonianza scritta anche per una ragione personale, volevo riordinare i ricordi e lasciare un diario a mio figlio, che a quel tempo era piccolo, perché possa conservare una traccia di quel periodo anche quando sarà grande». La pubblicazione ha anche uno scopo benefico: «Il ricavato dalla vendita delle copie - continua Luca - contribuisce a sostenere il Progetto Mattia, nato due anni fa. Avremmo dovuto presentarlo proprio nei primi giorni di marzo del 2020 quando la Lombardia è diventata zona rossa e ogni attività si è fermata a causa della pandemia. Ci auguriamo di poter ripartire presto con nuove iniziative. Nel frattempo, quando c’è stata la riapertura abbiamo promosso alcune feste. Ho tante idee in mente e spero di poterle realizzare per aiutare altre famiglie, che devono affrontare la mia stessa esperienza. Un padre, una madre, un figlio in stato neurovegetativo e gli altri intenti a barcamenarsi nella routine quotidiana, le giornate sempre in salita. Capita più frequentemente agli anziani, ma quando tocca a una persona giovane la situazione è ancora più difficile».
Luca ha provato di persona che «ciascuno di noi è custode di chi ha accanto. Ciascuno è affidato ad altri, e altri sono affidati a noi», come scrive Alessandro D’Avenia.
L’ultimo giorno con Viviana
Non riesce a dimenticare l’ultimo giorno trascorso con Viviana: «Era il 31 gennaio del 2010. Aveva un po’ di mal di testa e ci siamo subito allarmati. Ricordo che lei temporeggiava, avrebbe voluto fare una doccia prima di andare in ospedale, invece l’ho convinta a partire subito. Quando siamo arrivati al Pronto Soccorso è scesa dall’auto e l’ho accompagnata all’interno. L’ho affidata a un’infermiera che l’ha portata via per sottoporla alle analisi e non sapevo che ci stavamo salutando per l’ultima volta. Poi la situazione è degenerata rapidamente. L’ho intravista già intubata mentre la portavano in sala operatoria, in quel momento mi sono reso conto della gravità della situazione».
Casa degli Angeli
Quattro anni sono più di millequattrocento giorni, trascorsi in una dimensione diversa in cui, a un certo punto, il tempo non contava più: «Ci siamo trovati catapultati in un mondo di cui non sapevamo niente. Viviana è rimasta per due mesi in terapia intensiva all’ospedale, poi è stata trasferita alla Casa degli Angeli di Mozzo, e infine all’Habilita di Zingonia, per partecipare a un progetto sperimentale. Ci avevano spiegato che aveva subito un danno cerebrale molto esteso, ma all’inizio speravamo ancora che si risvegliasse, abbiamo tentato tutto il possibile. I medici usano un linguaggio difficile, non sempre decifrabile. Spesso chiedevo loro di rispiegarmi più chiaramente. Mi sono cimentato in molte ricerche per comprendere meglio la situazione. Mi sono informato su strutture all’avanguardia all’estero, cercando di capire se poteva trarne giovamento. La vedevo immobile nel letto, alimentata con un sondino. Respirava da sola ma non poteva comunicare. Aveva spesso gravi crisi convulsive, soffriva molto. Mi sono reso conto di quanto fosse importante salvaguardare la sua dignità in un momento di così grande fragilità. Mi turbava il fatto che lei non potesse manifestare in alcun modo le sue necessità e le sue emozioni. Ci siamo aggrappati a qualunque possibilità. Poi, dopo molti tentativi, ho capito che la scelta più opportuna era quella di restare accanto a Viviana cercando di farla stare meglio possibile. Non più curarla ma prendersene cura, che è diverso, accompagnarla, come potevamo. La nostra vicinanza era fatta di lunghi monologhi, ma anche soltanto della presenza fisica, di una carezza, di silenzio, di semplici gesti di cura. Non sono stati anni facili, ma ci siamo sempre arrangiati, con l’aiuto di tutti e quattro i nonni. Siamo andati avanti».
Luca e Mattia abitano nella stessa casa dei nonni paterni, circondata da un grande giardino. Nella mansarda c’è una stanza con tante costruzioni di mattoncini disposte in bella vista sugli scaffali, ricordi delle giornate trascorse giocando insieme. «Abbiamo cercato di tirare fuori qualcosa di buono da questa situazione. Ho sempre parlato sinceramente con mio figlio, gli ho detto ogni cosa» osserva Luca. Mattia è un ragazzo solare, quando parla delle sue partite a basket gli brillano gli occhi. Di quei tempi conserva pochissimi flash: «Andavo a trovare la mamma - dice -, mi ricordo la sua stanza in ospedale e il peluche che le avevo portato», lasciandolo vicino a lei per tenerle compagnia.
Proprio in questo tempo sospeso, guardandosi intorno, parlando con i familiari di altri pazienti, Luca ha immaginato il «Progetto Mattia»: «Sono stato fortunato, ho potuto contare sul sostegno dei miei genitori e dei miei suoceri, senza di loro non so come avremmo fatto. Una volta Mattia mi ha fatto notare che “andavo sempre dalla mamma” così ho capito che dovevo riequilibrare i tempi della mia vita. Ho notato anche i problemi degli altri, che a volte non avevano i mezzi per affrontare i normali compiti quotidiani di un genitore, come accompagnare i figli agli allenamenti sportivi. Quando un paziente si trova nella terra di mezzo dello stato vegetativo i suoi cari sperimentano una profonda solitudine. Tutti sono coinvolti, ci sono ripercussioni più ampie di quanto si possa immaginare».
Il progetto è già attivo anche se per adesso è ancora piccolo: «Stiamo seguendo una sola famiglia - spiega Luca -, con l’aiuto di uno psicologo e un educatore, offrendo per esempio vicinanza ai più piccoli e aiuto nei compiti. Speriamo di riuscire a raccogliere nuove risorse per poter fare molto di più. Siamo ancora all’inizio e non è facile farci conoscere e neppure farci segnalare situazioni che potrebbero richiedere un nostro intervento. Abbiamo aperto una pagina su Facebook, per adesso contiamo sul passaparola».
L’aiuto reciproco
Luca e Mattia si sono appoggiati l’uno all’altro: «Senza mio figlio - osserva Luca - non so come avrei fatto. Mi ha aiutato lui a diventare un buon genitore. Dovermi occupare di un bambino piccolo per me ha rappresentato uno stimolo fortissimo. La sua presenza, la sua allegria, le sue richieste di attenzione mi hanno dato tanta energia per reagire anche nei momenti più difficili». Ha compiuto un percorso lungo, che lui ricorda come una metamorfosi, fatta anche di errori, di scelte sbagliate, di cadute: «Nel frattempo ho cambiato lavoro, ho chiuso la mia ditta, ho dovuto affrontarne le conseguenze economiche. Ho trovato un’altra strada, ho dato importanza ad altri aspetti della vita e ora ne sono soddisfatto». Da un paio d’anni è volontario di Casirate Soccorso: «Ho incontrato questo gruppo quando avevo bisogno di trasportare mia moglie in ambulanza da una struttura all’altra. Quando sono riuscito a riordinare la mia vita ho deciso di impegnarmi anch’io. Sono stato nel centralino regionale, poi nei centri vaccinali, ora ho iniziato il corso di formazione di primo soccorso».
Il volontariato
L’idea del servizio ha sempre fatto parte della sua vita, fin dai tempi dell’oratorio, dove ha incontrato sua moglie: «Nel ’97 avevo vent’anni e ho guidato un furgone da Brignano a Torino per accompagnare una fiaccolata organizzata dall’oratorio, così ho incontrato Viviana ed è iniziata la nostra storia. Anni dopo abbiamo percorso insieme un tratto del Cammino di Santiago e dopo che lei è morta ho voluto concluderlo. In cinque giorni ho percorso 250 chilometri, arrivando a Finis Terrae. È stata una sfida con me stesso, un’esperienza intensissima, che mi ha dato stimoli difficili da tradurre in parole». In qualche modo Viviana gli è rimasta accanto: «Con gli anni abbiamo imparato a fare i conti con il dolore e con la mancanza. È stata dura, ci sono ancora momenti di fatica e di stanchezza, ma abbiamo deciso di fare tesoro di ciò che è successo e di puntare sulla bellezza, sulla speranza e sul futuro».
Per informazioni sul Progetto Mattia scrivere a: [email protected]
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