Il viaggio a Cuba: «Gente semplice e umile, una lezione per noi che viviamo in Occidente»
L’INTERVISTA. Cuba, don Mario Maffi, 80 anni, ha trascorso un quarto di secolo nella parrocchia di Imìas, nella regione di Guantanamo.
Padre Mario Maffi, 80 anni giusti, originario di Costa di Mezzate si appresta al rientro definitivo da Cuba, dove ha speso oltre venticinque anni della sua vita come missionario, nella regione di Guantanamo. Nel 1999 è cominciata questa avventura pastorale ed ecclesiale, nella parrocchia di Imìas, nel sud dell’isola. A lui abbiamo chiesto di raccontare questo quarto di secolo, speso gomito a gomito con le speranze e la fede del popolo cubano.
In questi venticinque anni come è cambiata la Chiesa cubana?
«La Chiesa cubana è sempre vissuta tra le difficoltà. La fatica legata anche al tirare avanti, che sembra sempre molto lento. molto faticoso. Però in tutto questo si respira una grande speranza, legata al modo di essere della gente: molto accogliente e molto generosa. Gente semplice, in cui non si trova nessun gesto di superbia. Per questo motivo ci si trova e si lavora bene insieme. Così la Chiesa è cresciuta in questo quarto di secolo, anche se questi due anni sono stati un tracollo. C’è stato un esodo massivo: oltre un milione di persone hanno lasciato l’isola, il 15 per cento della popolazione. E molti di essi sono giovani, quindi la Chiesa si è impoverita molto. Però la speranza continua, perché il Vangelo è sempre più forte di qualsiasi sfida che incontra nella storia».
Prima di arrivare a Cuba aveva già vissuto quattordici anni di Bolivia. Cosa l’ha colpita maggiormente nel passaggio?
«Sono due realtà, due culture assolutamente diverse. In Bolivia ho trovato comunità con culture e tradizioni consolidate, qui invece ho scoperto una realtà più varia e misteriosa, meno decifrabile. Ho trovato gente molto semplice e molto accogliente. Per questo dico che c’è speranza: perché il Vangelo può trovare una porta aperta. La maggior parte della gente cubana non è mai entrata in una chiesa: quando abbiamo messo un crocifisso nel giardino per segnalare la presenza di una parrocchia cristiana, molti si fermavano incuriositi, perché non era un’immagine familiare o già conosciuta. La Chiesa era stata dipinta come una realtà oppressiva e dei ricchi: evitata per lungo tempo, era diventata sconosciuta».
Quali gesti e quali incontri hanno permesso di riaccendere la fede e di farla riscoprire?
«Si tratta di una riscoperta molto graduale. Per qualcuno è un’esperienza profonda, per altri rimane più semplice e si ferma alla superficie. Parte da una sete del divino, che è presente in modo autentico in tutti. In modo confuso, è presente anche in coloro che sono legati al partito. In particolare, c’è una grande devozione alla Madonna, molto forte e molto radicata. L’immagine della Virgen de la Caridad, la Madonna del Cobre, sostiene questo popolo e identifica la fede di tutti, è un punto di riferimento per tutta la nazione. Nonostante la predicazione delle sette protestanti, molto presenti e molto forti, vada in tutt’altra direzione. Questa devozione mariana così resistente è un aspetto molto interessante della fede cubana».
Da qui, cosa si vede e cosa si capisce meglio del nostro mondo europeo e della nostra Chiesa occidentale? Quale sguardo possiamo portarci a casa?
«Forse, il discorso della semplicità. Una persona umana, per essere autentica, deve essere umile e semplice, consapevole del fatto che noi tutti siamo nelle mani di Dio. I cubani, anche attraverso la povertà concreta, sperimentano l’umiltà e il non darsi troppe arie. Ciò dà una lezione anche a noi che viviamo nel mondo occidentale: siamo diventati troppo sicuri e onnipotenti, ma questo non ci basta. In secondo luogo, qui si impara a condividere la fede, a non viverla come un fatto privato e personale».
Che eredità e che augurio lascia a questa terra?
«Che riscopra l’amore di Dio, questo basta. È lui che è al di sopra di ogni speranza. È chiaro che poi la gente fa fatica a credere, magari anche nella Risurrezione, ma il punto sta qui, la partita si gioca proprio qui: nel fidarsi dell’amore di Dio che supera ogni limite umano e apre alla speranza, anche dove umanamente ci si trova di fronte alla disillusione».
Colpisce questa centratura così esplicita. La missione, in fondo, ai nostri occhi sembrerebbe valere più per il suo portato di carità, di aiuto e di promozione umana che per l’aspetto della fede.
«La gente ha fame, è vero, ma non lo ammette, perché non vuole essere trattata da povera. La fede permette di vedere oltre, di considerare che gli uomini e le donne sono di più di ciò che mangiano, di ciò che bevono e di ciò che vestono. La fede permette di vedere la dignità delle persone: ti do di più del cibo, ti do Gesù Cristo, perché ne sei degno. Poi, se hai bisogno e se riesco, ti do la medicina e il cibo. Ma non ci si ferma a questo, perché sarebbe troppo poco, troppo limitante».
E come vede la fede dei giovani cubani?
«Fanno fatica ed è dura. Io li capisco. Sono battezzati, ma poi tutto il loro mondo va in un’altra direzione: la scuola che frequentano, le famiglie, la cultura, gli amici… Non li aiutano a restare cristiani e serve un grande sforzo: sia da parte loro, sia da parte di chi li accompagna. Ma la grande speranza riposa proprio nella fede in Gesù, che non abbandona e trova il modo di farsi strada».
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