Dalmine, ore 11, un inferno di fuoco: la strage dei civili fu il punto di non ritorno

LA MEMORIA. IL 6 luglio del 1944 due gruppi di bombardieri alleati sganciarono 400 ordigni devastando la fabbrica, il villaggio industriale, Mariano, Sabbio e Sforzatica. I morti furono 280 perché non scattò l’allarme. Da allora cambiò tutto con i tedeschi.

Conoscere, capire, ricordare: sono le parole che prendiamo a prestito dal libro «Una comunità ferita» dell’associazione storica dalminese, perché definiscono con precisione il perimetro e il senso della memoria del bombardamento di Dalmine, il 6 luglio 1944, 80 anni fa.

L’«Operazione 614», così il nome in codice, scatta al mattino. Due gruppi di bombardieri degli Alleati (una trentina di apparecchi), decollati dalle basi in Campania e Puglia, si dirigono al Nord e dal Garda virano sulla Bergamasca sganciando alle ore 11 in pochi minuti 400 ordigni (circa 77 tonnellate) sull’area dello stabilimento della Dalmine, sul villaggio industriale modello e sugli antichi borghi di Mariano, Sabbio e Sforzatica. L’incursione – ricostruita in tutti i dettagli nel corso degli anni dalla Fondazione Dalmine diretta da Manuel Tonolini – provoca 280 morti, circa 800 feriti e ingenti danni agli impianti e alle infrastrutture. La prima vittima (alle 11,03 come attestato dal registro comunale) è una bambina di 8 anni di Grassobbio che stava nei campi con i fratelli e il papà. In totale il raid ha coinvolto persone provenienti da 44 paesi della provincia e da Bergamo. Nello stabilimento si contano 235 dipendenti e 32 estranei morti, 252 feriti ricoverati all’ospedale, circa 450 feriti leggeri.

L’allarme in ritardo

Nella desolazione di ciò che resta si muovono anche nove studenti di Teologia dei Cappuccini di Bergamo impegnati nel recupero e ricomposizione delle salme degli operai. Testimonianze raccolte nel libro «Bagliori di carità tra le rovine dell’incursione»»: «Il quadro dei disastri di Dalmine sarebbe muto se solo si limitasse a questi danni materiali, ma unite a ciò i 300 morti, i 500 feriti, il pianto, la desolazione, lo strazio di tante famiglie che vi perdettero i loro cari, ed allora quel quadro lo vedrete colorarsi, animarsi, quelle macerie annerite le vedrete tingersi di sangue rosseggiante, tra quei mucchi di ferro scorgerete brani di carne palpitanti, di sotto le rovine udrete il gemito strozzato, debole, rantoloso del moribondo, addossati alle loro macchine vedrete cadaveri, ovunque morte».

In una stagione in cui tutte le grandi città italiane subiscono gli attacchi delle «fortezze volanti», perché un così alto numero di vittime? Secondo l’inchiesta della Commissione prefettizia dell’agosto ’45, «il segnale d’allarme non era stato dato perché l’ufficio germanico di Milano, il quale solo aveva la facoltà di ordinarlo, lo aveva dato con deplorevole ritardo. Detto comando, infatti, era solito segnalare l’allarme solo in caso di imminente pericolo di grandi formazioni, allo scopo di non far interrompere il lavoro negli stabilimenti».

La Dalmine, di proprietà pubblica, era fra gli obiettivi possibili in quanto produceva tubi senza saldatura utilizzati anche come materiale bellico e commesse militari per la Germania. Lo stabilimento (dove erano presenti alcune cellule partigiane) era occupato dai tedeschi che agivano attraverso l’ingegner Zimmermann, loro plenipotenziario. L’azienda nell’estate ’43 aveva ultimato, anche all’esterno della fabbrica la realizzazione di 159 rifugi antiaerei su un’area di oltre 6mila chilometri quadrati, per una capienza massima di 12 mila persone. Dal verbale del 13 luglio ’44 del Comitato direttivo della Dalmine: «Il presidente e la Direzione segnalano le difficoltà che s’incontrano nel riprendere in mano le maestranze fortemente scosse per l’altissimo numero di vittime – circa il 25% dei presenti fra morti e feriti – e farle partecipare efficientemente ai lavori di ricostruzione e riattamento degli stabilimenti, difficoltà aggravate dal fatto che l’opera di persuasione della Direzione è alquanto ostacolata e compromessa dall’atteggiamento piuttosto intransigente dell’incaricato tedesco, ing. Zimmermann. Il Comitato dà la sua incondizionata approvazione all’operato ed alle direttive del presidente e della Direzione generale, e raccomanda di fare tutto il possibile per accelerare al massimo il lavoro di ricostruzione in modo da poter rimettere al più presto in attività gli stabilimenti, così da non offrire pretesti per il trasferimento in Germania di macchine e maestranze».

Le minacce dei tedeschi

Il bombardamento ha colpito quasi tutti i reparti, in particolare un forno dell’acciaieria, il laminatoio, i reparti di aggiustaggio, manutenzione e finitura, il magazzino generale. Centrato anche il palazzo della Direzione.

Le autorità tedesche ordinano il ritorno al lavoro entro il 24 luglio, ricorrendo a costanti minacce. Pur tra episodi di resistenza passiva da parte degli operai, che ricorrono anche allo sciopero, i lavori di riparazione procedono velocemente. Dopo meno di 3 mesi i due terzi degli impianti rientrano in funzione. La pioggia di bombe ha comunque segnato un punto di rottura, perché i ritmi di produzione e i rendimenti non sono più gli stessi di prima. Le continue difficoltà per i rifornimenti di materie prime, specialmente di carbone, e i nuovi bombardamenti pur limitati, costringono la sospensione della produzione il 4 febbraio ’45. Gli operai rimasti in fabbrica sono quasi tutti impegnati nei lavori di ricostruzione o adibiti alla manutenzione dei forni. L’attività della Dalmine viene definitivamente bloccata dai successivi bombardamenti mirati del 12, 14 e 21 aprile che distruggono tra l’altro i forni e i laminatoi da poco riattivati. Il segnale d’allarme, questa volta dato con tempestività, impedisce ulteriori vittime.

«Il 25 Aprile – sottolinea la Fondazione Dalmine – porta alla gestione commissariale in grado di promuovere la ripresa della produzione a partire da novembre. Viene avviata la modernizzazione degli impianti, una riconversione e una specializzazione della produzione e l’ampliamento del commercio estero. In pochi anni, pur nelle ristrettezze e nelle turbolente vicende del dopoguerra, la Dalmine riprenderà i livelli produttivi e il numero di addetti del periodo prebellico, assumendo una centralità nella ricostruzione e nell’economia bergamasca e nazionale».

Il quadro storico degli attacchi aerei ha diverse componenti. C’è l’inizio della produzione di massa del quadrimotore, con l’impiego di prototipi destinati a diventare protagonisti della guerra aerea condotta dagli alleati: il «Lancaster» inglese, il «Liberator» e la «Flying Fortress» americani. Per gli anglo-americani, il bombardamento strategico svolge più funzioni (difesa, offesa, fiaccare il morale della popolazione e indebolire l’industria bellica, appoggio ai movimenti di terra e mare) e ha come scopo non tanto risultati militari circoscritti, quanto quello complessivo di «sconfiggere le nazioni».

Inferno di fuoco

Roosevelt, in uno scritto a Churchill del 25 luglio ’43, è categorico: «Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia ad un incessante e sempre crescente bombardamento aereo». L’inferno di fuoco sul nostro Paese si scatena a partire da fine ’42. Nel mirino le grandi città da Sud a Nord, passando da Roma (51 incursioni aeree sulla capitale). Bersagli privilegiati soprattutto nodi stradali, ponti, ferrovie, fabbriche d’armi. Un impiego indiscriminato dei caccia su obiettivi civili: abitazioni private, luoghi pubblici, teatri, chiese. Nella Germania di Hitler intere città vengono rase al suolo: Dresda prima, poi Berlino, Colonia, Amburgo, Monaco, Norimberga, Dortmund. Le vittime civili fra i tedeschi sono 600 mila. Enormi i costi umani anche per l’Italia, benché su scala minore rispetto alla Germania: circa 65.000 morti. Il patrimonio infrastrutturale è danneggiato per il 50%, quello produttivo per il 30%. L’apporto sistematico dell’aviazione altera il carattere stesso della guerra, come ha scritto lo storico Roberto Chiarini in occasione di una mostra su questi eventi a Brescia (1.302 vittime in tutta la provincia, 430 in città in 52 raid sul capoluogo): «Finisce di essere un conflitto unicamente tra soldati. Cade il confine tra militari e civili, tra combattenti e non combattenti. Subentra la guerra totale. E totale in due sensi. Primariamente, perché nessuno può sentirsi davvero al sicuro. Nessun settore della popolazione, nessun territorio è salvaguardato dall’orrore della guerra. Ma è guerra totale anche in un altro senso. I bombardamenti aerei rendono l’attacco armato del tutto impersonale. L’essere umano è ridotto a cosa (…)».

La guerra totale

Le città sotto le bombe affiancano i momenti più duri e sanguinosi, come le battaglie a Cassino, della campagna d’Italia degli Alleati dopo lo sbarco in Sicilia l’anno precedente e quello successivo ad Anzio.

Le truppe alleate incontrano ovunque la resistenza tedesca sulla Linea Gustav, ma ormai la guerra, con la vittoria degli Alleati nel ’43 in Nord Africa e la caduta di Mussolini, punta sull’attacco al «cuore dell’Europa» deciso nelle Conferenze interalleate fra Roosevelt, Churchill e Stalin.

Il ’44 è l’anno del D-Day e cambia il quadro di riferimento: con lo sbarco in Normandia parte la spallata finale al nazifascismo e su quelle spiagge comincia a formarsi la comunità delle democrazie. Il giorno prima, il 5 giugno, il generale americano Clark era entrato a Roma con le sue truppe.

Il 25 agosto de Gaulle è acclamato dalla folla nella Parigi liberata. Per non dimenticare.

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