Covid, saranno abbattuti
30 mila visoni di Capralba
Il più grande allevamento d’Italia è nell’Alto Cremasco, al confine con la Bassa Bergamasca. Tre animali risultati debolmente positivi. Il titolare: ma ora nemmeno uno.
Dopo che alcuni casi di infezione di Sars-Cov2 si sono verificati in alcuni allevamenti di visoni in Danimarca, dove le autorità sanitarie e il governo hanno deciso per l’abbattimento di tutti gli esemplari presenti sul territorio nazionale - 17 milioni - anche in Italia si è alzato il livello di allerta e attenzione. Abbattimenti ci sono già stati anche in altre nazioni europee, mentre il ministero della Salute, Roberto Speranza, ha sospeso per tre mesi l’attività degli allevamenti e poi ordinato l’abbattimento degli animali - in caso di avvenuti contagi -, per contrastare il rischio di diffusione del contagio. All’allevamento Mi.Fo. Capralba, nell’Alto Cremasco, punto di riferimento anche per chi in passato, in provincia di Bergamo ha tentato di avviare quest’attività, è questione di giorni per i circa 30 mila visoni presenti.
Saranno abbattuti tutti, riproduttori compresi, per poi essere inceneriti, per fermare il rischio di contagio da coronavirus. È questa la sorte dell’allevamento nell’Alto Cremasco, al confine con la Bassa, il più grande in Italia.
Il titolare del Mi-Fo., Giovanni Boccù, è ancora incredulo: «Non possiamo essere noi –dice – ad abbattere i visoni ma una ditta esterna che si occuperà anche dell’incenerimento delle carcasse. L’abbattimento, si badi bene, è un lavoro che si impara nel corso degli anni, non s’improvvisa. Non so come andrà. Le autorità sanitarie ci hanno detto che dal 25 novembre ogni giorno sarebbe stato buono, ma non conosciamo il giorno esatto in cui inizieranno ad abbatterli, né sappiamo nulla sugli indennizzi statali che dovrebbero esserci versati. Quel che è certo è che secondo il normale funzionamento dell’allevamento avremmo dovuto iniziare gli abbattimenti e le lavorazioni delle pelli il 2 novembre scorso, cosa che non abbiamo potuto fare perché fermi in attesa di una decisione dal ministero. Attualmente abbiamo circa 30 mila visoni da sfamare per i quali spendiamo circa tremila euro al giorno». Ai primi di agosto un operaio del Mi.Fo. era risultato positivo al Covid. Da lì l’intervento delle autorità sanitarie, che hanno fatto i tamponi a tutte le persone impiegate nell’azienda (risultate negative) e poi centinaia di animali. Due, secondo quanto riferito dall’Ats Valpadana, i visoni risultati lievemente positivi e immediato il provvedimento di fermo dell’attività, lo stesso che viene preso in tutti gli allevamenti in cui si riscontrano malattie infettive fra gli animali. I tamponi sono proseguiti e un nuovo caso di positività, anche questo leggermente positivo, è stato riscontrato a fine ottobre. Poi più nulla. Boccù ha fatto ricorso al Tar di Brescia per poter riprendere a lavorare e l’ha vinto, ma nello stesso giorno in cui ha saputo del pronunciamento dei giudici amministrativi (era la metà di novembre), Ats ha bloccato di nuovo il tutto con un altro provvedimento, in attesa del pronunciamento del ministero della Salute arrivato lunedì 23 novembre, con cui è stata sospesa l’attività di tutti gli allevamenti di visoni presenti sul territorio nazionale. «Stanno andando in fumo – afferma Boccù – quarant’anni di lavoro e investimenti milionari che hanno portato il nostro allevamento ad essere fra i top in Europa. Ora mi ordinano di abbattere 30 mila visoni, riproduttori compresi, e di incenerirli cosicché non potrò nemmeno recuperare le pelli. Qui il virus non c’è e non sono solo io a dirlo, ma lo dicono i giudici e lo dice anche l’istituto zooprofilattico di Brescia che ha fatto le analisi. Ci fossero animali malati, sarei io il primo ad alzare le mani per la salvaguardia della salute pubblica ma così no, non è possibile. Io ho 70 anni, ma ho due figli di 44 e di 40 anni che hanno famiglia ed abbiamo dei dipendenti. Cosa faranno? Non è che un allevamento come questo possa essere riconvertito. Succederà che le pellicce le faranno ugualmente, ma nei Paesi dove non ci sono regole, e noi avremo perso il nostro lavoro e la nostra qualità. Quando la pandemia sarà finita – conclude Boccù – è nostra intenzione provare a riprendere l’attività, ma sarà molto complicato farlo se non avremo le risorse».
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