Il futuro dei trapianti? Proteine contro il rigetto

L’INCONTRO. È un concetto rivoluzionario in immunologia ma che potrebbe cambiare la storia dell’impianto da un animale a un uomo.

«Trapianto d’organi: da dove siamo partiti e dove vorremmo (forse) arrivare»: l’incontro di venerdì 11 ottobre, a piazzale Alpini, per BergamoScienza, ha illustrato origini, storia, problemi attuali e presumibilmente venturi, ultime frontiere e prossimi traguardi della tecnica del trapianto di organi. A parlarne, un nefrologo di fama internazionale come il bergamasco Giuseppe Remuzzi, direttore del Mario Negri e membro dell’associazione BergamoScienza; Giorgina Piccoli, del Centre Hospitalier di Le Mans; Michele Colledan, autore di più di duemila trapianti di fegato, già direttore Dipartimento trapianti al «Papa Giovanni XXIII», ora consulente all’Ospedale Pederzoli. Ha moderato Nicola Quadri, Associazione BergamoScienza.

Il progresso nella storia

A ripercorrere la storia del trapianto, in Italia e nel mondo, è Remuzzi: dall’intervento del professor Stefanini al Policlinico di Roma nel 1966, che trapianta un rene da uno scimpanzè di nome Peppone, che, in cambio, riceve delle mele («e sembra contento dell’affare»), ai recentissimi esperimenti per trapiantare organi di maiale, geneticamente modificati, nell’uomo, senza causare reazioni di rigetto. La situazione, oggi, è migliorata incommensurabilmente, ma «resta un problema: perché l’organismo accetti il trapianto bisogna frenare il sistema immune, che legge l’organo nuovo come un estraneo e lo respinge. Se lo fermiamo, però, questo smette di difenderci dai tumori e da mille malattie. Abbiamo prodotto uno sforzo per ridurre la quantità di farmaci che contrastino la sua azione, oggi molto minore che in passato. I pazienti non vengono più trasfigurati dalla terapia immunosoppressiva, deformati dal cortisone o dalle ciclosporine».

Facciamo un sesto, forse un settimo o un ottavo dei trapianti di cui ci sarebbe bisogno: «C’è da fare ancora tantissimo, i donatori non bastano, non basteranno mai»

L’immunotolleranza è indotta «con le cellule mesenchimali. Ma il vero problema è che non abbiamo abbastanza organi per tutti i pazienti che ne necessiterebbero. Facciamo un sesto, forse un settimo o un ottavo dei trapianti di cui ci sarebbe bisogno. Non abbiamo abbastanza donatori. Cosicché i ricercatori hanno cominciato a pensare a organi di animali». Il futuro? «Sarà legato a animali modificati geneticamente, per evitare reazioni di incompatibilità. Quando Barnard ha fatto il primo trapianto di cuore, il ricevente è sopravvissuto solo due settimane». David Bennet, che, il 7 gennaio 2022, ha ricevuto un cuore di maiale, «è sopravvissuto otto settimane. Se un intervento fatto per la prima volta ha questo risultato, vuol dire che presto o tardi questa cosa si riuscirà a farla. Stiamo tentando tante strade nuove. Abbiamo trovato il sistema di trasformare, negli animali, il danno iniziale da trapianto in una cosa positiva: opponendogli proteine che si producono in quella circostanza, il sistema immune non riesce a operare il rigetto. Nei topi funziona. Sarebbe un concetto rivoluzionario in immunologia, che potrebbe cambiare la storia del trapianto da animale a uomo».

«C’è da fare ancora tantissimo, i donatori non bastano, non basteranno mai», conferma Colledan: «Occorre incrementare le donazioni da deceduto a vivente, insieme alla tecnica della perfusione extracorporea degli organi. Ancora oggi gli organi sono conservati nella ghiacciaia da picnic, il che limita molto le possibilità di conservazione. C’è però la possibilità di attaccarli a macchine che li perfondono con liquido vario o con il sangue stesso, migliorandone conservazione e caratteristiche, e consentendo di guadagnare tempo prezioso. Arriveremo a certificazioni delle caratteristiche degli organi».

Giorgina Piccoli, racconta lei stessa, ha raccolto «tante storie di trapiantati, specie di reni, per capire come vivono questa esperienza»

Il trapianto da animale a uomo «ha fatto tanta strada, si sono usati maiali anche con dieci geni modificati, per impedire, per esempio, che il cuore crescesse troppo». Altra vena di ricerca, ma «su tempi lunghi, la produzione di organi in laboratorio». L’ambito tecnico-chirurgico, ancora, «si sviluppa in modo incredibile, grazie ai robot che innalzano la precisione del lavoro anche rispetto al microscopio operatore. Si è iniziato da poco, ma ci sarà uno sviluppo notevolissimo». Giorgina Piccoli, racconta lei stessa, ha raccolto «tante storie di trapiantati, specie di reni, per capire come vivono questa esperienza. Ognuno di noi è diverso, ogni storia è diversa. Ho cominciato a raccogliere testimonianze trent’anni fa, quando con i pazienti si parlava ancor meno di oggi. Spesso non siamo abili comunicatori. A noi è servito moltissimo per essere più vicini al paziente. È tutto diverso se sei tu il malato, se è tuo fratello o tuo padre. Quello che è cambiato è che i pazienti hanno più voglia di sapere, noi diamo più peso al rapporto umano, dobbiamo rispondere alle domande. E’ un percorso che si fa insieme. Il rapporto che c’è in Italia è migliore di quello che c’è in Francia».

Cosa fare per allargare la platea dei donatori d’organi? Remuzzi: «Lasciare gli organi invece che farli bruciare o lasciarli marcire dovrebbe esser un dovere civico. La soluzione è semplicissima: chi non vuole lasciare gli organi, per qualunque ragione, sia lui a comunicarlo. Altrimenti si dà per assodato che gli organi si lasciano ai vivi. Tutti, salvo espressa indicazione contraria, devono essere considerati donatori».

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