La Buona Domenica / Pianura
Domenica 12 Maggio 2024
Una vita a canestro contro gli ostacoli: «E ho ancora tanti sogni da realizzare»
LA STORIA. Fabio Raimondi, a 11 anni la terribile diagnosi e la carrozzina. L’amore per il basket e 2 Paralimpiadi con gli Azzurri.
«La pallacanestro mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato quanta forza possano avere i sogni. Può accadere che la normalità venga stravolta da una malattia, come è capitato a me, costretto su una carrozzina a 11 anni. Ma se credi in te stesso puoi comunque arrivare dove vuoi». Fabio Raimondi, cresciuto a Ciserano, è un «bergamasco doc» anche per questa sua tenacia da combattente: «Mola mia», non si arrende mai.
Compirà ad agosto 52 anni, ha girato tutta l’Italia giocando in diversi club di serie A di Basket in carrozzina, da 35 anni fa parte della nazionale, ha partecipato per due volte alle Paralimpiadi: Atene nel 2004 e Londra nel 2012. Oggi continua la sua carriera sportiva nella squadra «Santo Stefano Sport» a Porto Potenza Picena e vive a Bologna con la moglie Francesca e la figlia Miriam di 4 anni.
Il sogno della terza Paralimpiade con la nazionale è purtroppo sfumato a metà aprile, perché gli azzurri del basket in carrozzina hanno perso l’incontro decisivo per la qualificazione contro il Canada: «È davvero un peccato - dice Fabio - ma lo sport è così, e si può imparare molto anche dalle sconfitte: ci insegnano a conoscere e accettare i nostri limiti. Ci mostrano quali aspetti possiamo migliorare, quali sfide possiamo ancora affrontare».
Fabio ha scoperto quasi per caso a 11 anni di avere un astrocitoma (una forma di tumore) alla colonna vertebrale. «Avvertivo dei dolori alla schiena - racconta - ma solo di notte, quando mi sdraiavo sul letto. Nessuno pensava che fosse il sintomo di una patologia grave, finché un medico durante una visita scolastica si è insospettito, consigliandomi un consulto all’istituto neurologico Besta di Milano. È bastato un semplice esame, a quel punto, per scoprire l’astrocitoma, che comprimendo la colonna provocava il dolore».
La diagnosi ha creato sorpresa, smarrimento e scompiglio in lui e nella sua famiglia: «Ero troppo giovane per rendermi conto di cosa stesse accadendo. Purtroppo, hanno dovuto operarmi e la massa era estesa, perciò la sua asportazione ha comportato un danno permanente. All’inizio pensavo di poter tornare a camminare, ci è voluto un po’ per capire e accettare che questo non sarebbe mai successo».
La sua vita è cambiata per sempre: «All’inizio è stata dura. Per fortuna, però, ho potuto contare sul grandissimo sostegno dei miei genitori e di mio fratello. Posso dire di aver avuto sempre accanto le persone giuste al momento giusto, e questo ha fatto la differenza. Mi hanno aiutato in ogni modo, mi hanno sostenuto e incoraggiato a seguire le mie passioni».
In quel periodo Fabio girava per Ciserano con uno zainetto in cui teneva sempre una palla, e ci giocava non appena ne aveva l’occasione: «Al campo dell’oratorio mi facevano fare il portiere e le persone erano ammirate dall’impegno e dalla resistenza che dimostravo. Mi piaceva molto anche tirare a canestro, e ci riuscivo molto bene. Trascorrevo in palestra anche cinque o sei ore al giorno. Così ho iniziato ad avvicinarmi al basket. Ormai sono un tiratore esperto, quando punto al canestro quasi sempre segno. Non è un caso: ci sono voluti tantissimo impegno e allenamento».
A 16 anni già in Nazionale
I suoi fisioterapisti hanno incoraggiato la sua inclinazione per lo sport, facendogli conoscere il Basket per in carrozzina, attività sportiva inclusiva alla quale partecipano atleti con qualsiasi tipo di disabilità. «Ho iniziato ad allenarmi subito, ma sono entrato nella squadra della Phb, Polisportiva Bergamasca, a 16 anni, perché prima non sarebbe stato possibile. Dopo due mesi, sono stato convocato dalla nazionale».
Negli anni successivi Fabio è andato dove lo portava il suo desiderio di misurarsi con sfide sempre nuove e di conoscere posti diversi, oltre i confini di casa sua: «Ho giocato a Cantù, una squadra forte, ben organizzata, che mi offriva tante prospettive. Poi mi ha chiamato la squadra Santa Lucia di Roma, la Juve del basket in carrozzina. Dopo un breve interludio a Madrid mi sono reso conto che vivere all’estero non faceva per me, mi mancava troppo l’Italia. Sono stato per diversi anni a Sassari, non sono più tornato a Bergamo se non per incontrare la mia famiglia».
Il periodo della pandemia è stato particolarmente difficile per Fabio: «Sono passato da dieci ore di allenamento in palestra a intere giornate in casa, e la mia forma fisica ne ha risentito. Poi ho ricominciato ad allenarmi, senza sapere se sarei riuscito a giocare ancora agli stessi livelli di prima. Anche in questo caso c’è voluta una dose supplementare di pazienza e impegno, ma non mi sono arreso. Ho incontrato un vecchio amico e compagno di squadra della nazionale e con lui una nuova possibilità. Così da due anni mi sono trasferito nelle Marche, a Porto Potenza Picena, in una squadra in cui mi sento davvero a casa, nata dall’istituto di riabilitazione Santo Stefano. Mi alleno in tutti i giorni infrasettimanali, conducendo la vita di uno sportivo professionista, poi nel weekend torno a Bologna dalla mia famiglia. Quest’anno abbiamo giocato una bellissima stagione e abbiamo vinto la Supercoppa».
Crisi sì, ma tanta forza di volontà
La sua passione per questa disciplina gli ha dato nuove motivazioni: «Ho sempre desiderato riuscire a distinguermi. Volevo capire se c’era qualche ambito in cui potevo eguagliare o addirittura superare i normodotati. Non potevo più camminare, c’erano tante cose che non potevo più fare, ma ho preferito concentrarmi sulle possibilità che mi erano rimaste. Sono stato molto fortunato, perché nessuno mi ha fatto mai pesare la mia disabilità. Non ho subito discriminazioni né atti di bullismo, come purtroppo a volte succede. Ho attraversato momenti di crisi ma c’è sempre stato chi mi ha indicato la strada per trasformare le difficoltà in opportunità, e riuscirci mi ha dato moltissime soddisfazioni».
La piccola Miriam, la prima tifosa
Conducendo una vita vagabonda, Fabio non pensava di sposarsi. Poi, però, nel 2016 ha conosciuto Francesca mentre si trovava a Bologna, impegnato come testimonial per un’azienda di ausili per disabili. «Ci siamo sposati e abbiamo una bimba di 4 anni, Miriam, che è la mia prima tifosa e ha il mio stesso carattere bergamasco: è tenace e vorrebbe sempre vincere».
Diventare padre è stata una grande emozione per lui: «All’inizio avevo paura di non riuscirci. In passato non si dava molto peso a questo aspetto delicato e importante della vita delle persone con disabilità motoria, si puntavano tutte le energie nella riabilitazione e nella conquista della maggiore autonomia possibile. Ci ho pensato molte volte negli anni, portandomi dietro un senso di incompiutezza: riuscire a sperimentare la normalità della vita familiare era uno dei miei grandi sogni, ed è stato bellissimo poterlo realizzare».
Miriam sta crescendo nell’ambiente dello sport paralimpico, che inevitabilmente influenza il suo modo di guardare la realtà e il mondo: «I bambini hanno uno sguardo fresco e ingenuo rispetto a quello degli adulti. All’opposto dei suoi compagni, mia figlia si chiede come mai ci siano persone che giocano a basket senza carrozzina. Non ha pregiudizi verso qualunque tipo di disabilità, le persone non le sembrano ”strane” solo perché sono diverse”. Da sportivo, ha notato che la condizione di atleta finisce col prevalere sulla disabilità nell’opinione delle persone: «Quando la gente scopre che gioco a basket in carrozzina si interessa più a questo che ad altri aspetti, mi guarda in modo diverso, mi dimostra considerazione e non compassione. Sul campo mi sembra di vivere in un mondo senza barriere, le differenze si annullano, contano solo la squadra e lo sport. Essere allenato, fra l’altro, spesso mi aiuta anche a superare meglio le difficoltà della vita e perfino i piccoli malesseri fisici. Riesco a concentrarmi di più sugli sforzi necessari per migliorare, crescere e superare i limiti».
Le prossime sfide
Nel basket come nelle altre discipline di squadra conta molto l’affiatamento fra i compagni: «Ho incontrato persone con problematiche diverse, a volte più gravi delle mie. Stare accanto a loro sul campo di gioco mi ha mostrato che lo sport è condivisione. Siamo un gruppo molto unito e armonico, formiamo una comunità, una cosa rara ai nostri giorni al di fuori dell’ambiente sportivo. Nella società contemporanea, infatti, mi sembra che prevalga l’idea di poter ottenere tutto e subito. Nello sport, invece, ci vogliono un po’ di sacrificio e la disponibilità a mettersi a servizio degli altri. Servono pazienza e tanto lavoro per raggiungere i propri obiettivi. I social danno ai giovani l’illusione di stare insieme, mentre fanno perdere tempo: il luogo dove si incontrano le persone e si giocano le partite è la palestra».
Il primo fan di Fabio è stato suo padre: «Quando è morto mi sono accorto con commozione che aveva conservato in un album tutti i ritagli di giornale che mi riguardavano, e aveva raccolto le medaglie in una bacheca. In uno zaino ho trovato perfino le mie prime maglie di quando giocavo a Bergamo». Oggi invece è la piccola Miriam a tenere traccia e memoria di tutti i risultati del papà: «Mi accompagna sempre - sorride Fabio - nelle partite e nelle premiazioni».
Le sfide più importanti per Fabio sono quelle che deve ancora affrontare e mantiene con coraggio e fiducia lo sguardo puntato sul futuro: «Non sono legato a una vittoria in particolare, fanno tutte parte del mio bagaglio di esperienze, come pure le sconfitte. Considero un grande regalo poter continuare a scendere in campo coltivando questa grande passione per lo sport, che ha portato gioia e appagamento nella mia vita. Ho tanti sogni ancora da realizzare e uno prevale sugli altri: dopo trentacinque anni il legame con la maglia azzurra è molto forte. Sarebbe bellissimo un giorno poter continuare la mia carriera come allenatore della nazionale».
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