Trasformare l’inferno in bellezza e poesia: «Le prime strofe a 15 anni in orfanotrofio»

TREVIGLIO. Il ritorno in quel luogo di rinascita in occasione dell’inaugurazione della Comunità alloggio «Margherita».

«Nel gran silenzio/ dell’autunno che avanza/ io alla finestra di questa stanza/ lascio al gran caldo un po’ del mio cuore/ e piango anch’io /con l’estate che muore». Ornella Mereghetti tiene gli occhi chiusi e declama la sua prima poesia con una voce profonda, vibrante, in cui si sentono le note di un passato sofferto. L’ha scritta a 15 anni nell’Orfanotrofio femminile di Treviglio, dove si era rifugiata per sottrarsi alle violenze subite in casa.

«Quando scrivo dei versi - racconta -, è come se scattassi una fotografia delle emozioni del mio cuore, che poi resta impressa per sempre. Quando recito questa mia prima poesia rivedo tutto: la mia stanza, il colore delle pareti, il giardino, la fontana che ormai non c’è più».

La Comunità alloggio «Margherita»

È tornata in quel luogo così importante per lei poco tempo fa, rivivendo il ricordo di quei primi versi, in occasione dell’inaugurazione della Comunità alloggio «Margherita», allestita per l’accoglienza di dieci minori e due neomaggiorenni, gestita dall’azienda consortile «Risorsa sociale della Gera d’Adda» su mandato dell’ambito territoriale, ricavata nell’edificio che un tempo ospitava l’Orfanotrofio femminile, di proprietà della Fondazione Portaluppi.

Anche oggi continua a offrire un’opportunità di riscatto a ragazzi allontanati dalle famiglie per decreto dell’autorità giudiziaria, come era capitato a lei. Per quanto difficile sia stato quel periodo oggi lo definisce «la mia salvezza»: nel cammino compiuto da allora c’è una testimonianza forte di speranza e rinascita.

«Sono riuscita a cambiare il male in bene»

Proprio lì, nell’orfanotrofio, ha imparato a trasformare l’inferno in bellezza attraverso la scrittura: «Grazie ad essa - e a tutta l’opera di rielaborazione che l’ha accompagnata - sono riuscita a cambiare il male in bene, è il mio dono». Ha vinto premi prestigiosi, pubblicato numerose raccolte poetiche, organizzato spettacoli, presentazioni, eventi benefici per aiutare persone in difficoltà.

«Avevo 22 anni, sono uscita dall’orfanotrofio e sono andata a vivere da sola»

All’orfanotrofio ha trovato anche la sua vocazione professionale: «Ho fatto l’infermiera per 44 anni, mi sono diplomata a Treviglio e poi sono andata a lavorare a Melzo: a quel punto avevo 22 anni, sono uscita dall’orfanotrofio e sono andata a vivere da sola, dopo 11 anni trascorsi in istituto».

La sua storia è piena di dolore e di coraggio: «Ho denunciato il mio patrigno per violenza» spiega, un atto difficile e impegnativo per una ragazzina, che però le ha salvato la vita, offrendo un’opportunità anche a suo fratello e alle tre sorelle.

Il padre biologico ha abbandonato lei e sua madre. L’ha conosciuto brevemente solo da adulta, riuscendo a incontrarlo - dopo molte esitazioni - poco prima della sua morte per una malattia incurabile.

L’allenamento al perdono

Nella sua vita c’è stato un continuo allenamento al perdono, per evitare che il suo passato così «pesante» diventasse una gabbia. C’è una lunga schiera di piante e fiori ad abbellire la facciata di casa sua, e fra tutti spicca un albicocco alto e snello, che tende i suoi rami verso il cielo: «È nato per caso - sorride - da un nocciolo buttato nel terreno senza aspettative. Invece è germogliato, e mi ha dato moltissimi frutti. A un certo punto hanno costruito un edificio qui davanti che gli ha tolto molta luce, ma è un albero che non si arrende, continua a protendere i rami sempre più in alto per cercare il sole. È forte come me». Proprio per questo anni fa, quando le hanno chiesto di scegliere una pianta per il giardino dell’orfanotrofio, ha indicato l’albicocco: «È l’albero che più mi rappresenta, e nonostante tutte le difficoltà continua a dare frutti, come accade, in fondo, anche alla mia vita. Per me è simbolo di una storia di speranza». Un augurio felice anche per i giovani ospitati dalla Comunità per minori di oggi che stanno compiendo un cammino analogo.

Il rapporto con la madre

Ci sono voluti tempo e pazienza, ma Ornella ha riaccolto la madre nel suo cuore: «Non è stata capace di proteggerci perché era terrorizzata dal marito, ha sempre negato le sue violenze. Alla fine ho capito le sue fragilità e le ho accettate . Non l’ho mai abbandonata, poi sono stata io a farle da madre, a offrirle vicinanza e cura, dandole tutto ciò che potevo. Le sono stata accanto sempre, ma in particolare nei dodici anni in cui è rimasta allettata e infine quando si è ammalata di cancro, accompagnandola nella sofferenza fino alla morte. Quando se n’è andata, l’anno scorso, sono rimasta a lungo immersa nella tristezza, ci ho messo molto tempo a elaborare il lutto. Mi sono resa conto di quanto l’amassi, nonostante tutto». Le dedica una lirica del perdono, «Invece sono tornata»: «Sono stata in esilio/ ma poi/ sono tornata./ E ti ho rivista/ madre/ ti ho perdonata/ accudita/ lavata/ medicata».

L’infanzia

La sua infanzia difficile è come un fantasma invadente che ogni tanto torna a trovarla: «A casa mia spesso non c’era cibo. Di notte non dormivo perché avevo paura del mio patrigno. Non voleva che studiassi, lo considerava inutile, dovevo uscire di nascosto per andare a scuola. Se ne accorgevano gli insegnanti, perché ero gracile e denutrita e ogni tanto mi addormentavo. È stata la mia professoressa di italiano a far partire la denuncia, ci è voluto un anno prima che mi togliessero da casa. Quando mi hanno detto che potevo andare a dormire in orfanotrofio sono tornata di soppiatto a prendere le mie cose, non ho trovato nessuno. Da quel momento non ci sono più tornata. Non dimenticherò mai quel momento in cui la mia vita è cambiata». Anche quel tempo così difficile si è stemperato in versi: «Con la mia mente/ per sopravvivere/ avevo imparato/ l’arte/ di scomparire./ Le mie braccia/ erano canali/ bisognosi d’affetto».

Il suo patrigno è morto nel 2000 per un’emorragia cerebrale: «Ormai ho perdonato anche lui, ho chiuso questo cerchio quando sono andata in cimitero per occuparmi dell’esumazione e traslazione dei resti nell’ossario. È stato un modo per lasciarmi alle spalle il peso di ciò che è avvenuto e andare oltre».

L’impegno artistico

Ornella ha saputo incanalare la negatività nel suo impegno artistico: «Comporre una poesia per me è trasformare il brutto in bello, trovare una veste nuova per ogni tipo di dolore, in modo che diventi rinascita, un modo per elevarsi. Questo è stato il dono che mi ha sempre accompagnato in ogni momento difficile».

«Mi sono cimentata in molte raccolte fondi per scopi benefici a sostegno di diverse associazioni e progetti, come la cooperativa Sirio che si occupa di donne maltrattate»

A trent’anni ha scoperto di avere l’endometriosi, una malattia che in seguito l’ha costretta a terapie invasive e interventi invalidanti. Nonostante tutto ha avuto due figlie, Elisa e Giulia: «Ormai sono grandi - spiega - e vivono entrambe lontane: una a Londra, l’altra a Lugano».

Le poesie le hanno permesso di aiutare altre persone in difficoltà: «Mi sono cimentata in molte raccolte fondi per scopi benefici a sostegno di diverse associazioni e progetti, come la cooperativa Sirio che si occupa di donne maltrattate, la pediatria di Treviglio, gli Amici di Gabry, il Villaggio Solidale di “Famiglie e accoglienza”. Mi piace pensare che i miei versi così come hanno salvato me possano aiutare altri».

Ha sempre considerato l’orfanotrofio come il suo punto di svolta, e ci è tornata anche per ricostruire la sua storia: «Mia figlia in veste di regista ha voluto girare un film dedicato alla mia infanzia, ambientandolo in parte nell’orfanotrofio e in parte nella colonia di Roncobello, dove le suore ci portavano d’estate, un posto pieno di pace. Per le riprese abbiamo usato anche la sala dove un tempo c’era il refettorio, e dalla quale in seguito è stato ricavato un teatro».

Il padre biologico

Ha cercato per la prima volta il padre biologico quando era incinta: «Mi hanno chiesto quali fossero le malattie dei miei genitori, questo mi ha spinto a pormi delle domande. Avevo rintracciato il suo numero di telefono, ho chiamato ma era al lavoro, e il giorno dopo non ho avuto il coraggio di richiamare. Vent’anni dopo ho riprovato attraverso una trasmissione televisiva che si occupava proprio di ricucire legami familiari. A quel punto l’ho incontrato, ma non sono riuscita a porgli tutte le domande che mi frullavano in testa, non ho avuto la possibilità di affrontare con lui le questioni che mi stavano più a cuore. Poco dopo si è ammalato ed è morto».

«Ricomincio da capo allo stesso modo ogni volta che affronto una situazione impegnativa, arrivando al termine alla poesia come strumento supremo di rielaborazione»

L’impegno nel medicare le ferite dell’anima è una delle cifre caratteristiche della vita di Ornella, con la pazienza che si manifesta nell’arte giapponese del kintsukuroi: quando un vaso va in mille pezzi, i maestri artigiani ne raccolgono i frammenti e li saldano con pasta d’oro e argento, che finisce per esaltare le fratture, in modo che mostrino tanto la fragilità quanto la forza del resistere, e in questo sta la vera bellezza: «Voglio stare con l’animo in pace - dice Ornella - ho voluto trasformare il dolore in bene, mettendo in queste opere fatica, accettazione, comprensione. Ci è voluto tempo per completare poi questo processo, traducendo infine in parole ciò che avevo vissuto. Ricomincio da capo allo stesso modo ogni volta che affronto una situazione impegnativa, arrivando al termine alla poesia come strumento supremo di rielaborazione».

Quando ha portato le bozze della sua prima raccolta «Cartoline dall’inferno» a suor Mariateresa, che le aveva fatto da guida negli anni dell’orfanotrofio, le ha fatto notare un particolare: «Mi ha detto che nei miei testi c’era tanto dolore, ma soprattutto c’era il perdono, e questo li rendeva ancora più preziosi. Così ho trovato un senso a tutta la fatica, perché mi sono portata dietro colpe che non avevo, ho dovuto impegnarmi il doppio per seguire la mia strada e superare i giudizi sbrigativi di tante persone. A volte mi chiedo come ho fatto a superare tutte le cose che mi sono capitate, e trovo le risposte nella poesia, che è come una luce che attraversa la mia vita». Come scrive nella composizione «Mi dà respiro e vita»: «Quella cosa / che mi fa vedere/ il mare/ sopra i tetti/ del mio cortile,/ che va/ oltre il dolore/ e la malattia./ Quella cosa/ che illumina/ la vita/ mi dà respiro/ e pace/ è la poesia».

© RIPRODUZIONE RISERVATA