«Non riuscivo ad accettare la malattia, poi in comunità ho incontrato il futuro»

La Buona Domenica Ogni tatuaggio racconta la lotta di Anna per risollevarsi: ce l’ha fatta grazie al Progetto ZeroUno. E adesso lavora.

Un fiore, un arabesco, il Piccolo Principe di Saint Exupéry con la sua volpe: Anna, ventidue anni, ha già una piccola collezione di tatuaggi sulla pelle. Ognuno racconta qualcosa di lei, cattura i momenti di caduta e poi la sua rinascita. All’inizio li usava per nascondere le cicatrici delle ferite che lei stessa si infliggeva. Uno per ogni ricovero in psichiatria. Poi, però, si sono trasformati in qualcosa di diverso: «Mi ricordano – racconta con un sorriso – i piccoli passi compiuti verso la guarigione. Ognuno segna una conquista». Negli ultimi mesi è stato il progetto ZeroUno ad aiutarla a riprendere slancio: uno spazio di formazione e lavoro promosso da Cooperativa Sociale L’Impronta, Associazione Formazione Professionale Patronato S. Vincenzo e azienda MIDA Informatica. È un’attività rivolta a ragazzi delle scuole, che svolgono tirocini curricolari, e a soggetti con fragilità inviati da enti e servizi del territorio. In quattro anni ci sono passati una quarantina di giovani, ognuno per un periodo di alcuni mesi: l’obiettivo è mettersi alla prova svolgendo un lavoro serio, che richiede attenzione, precisione e competenza, al fine di far emergere e consolidare qualità umane e impegno professionale per potersi poi misurare col mondo senza paura.

Paura di tornare a lavorare

«Avevo paura di tornare a lavorare – dice Anna – , perché da tempo non lo facevo più. Per mesi sono rimasta sempre chiusa in camera, a letto, senza avere contatti con nessuno, tenevo persino le tapparelle abbassate. Non ero più abituata a dialogare con le persone. Sono stata per quasi due anni nella comunità della Fondazione Gusmini di Vertova e lì ho ritrovato il sorriso e la capacità di reagire. Mi sono rimessa in gioco gradualmente, prima con alcuni lavoretti all’interno della stessa comunità, poi nella lavanderia, piegando e risistemando i panni, poi è arrivato il momento di uscire, una prospettiva che mi terrorizzava. Ho iniziato a frequentare il progetto ZeroUno con quattro ore di part-time per tre giorni alla settimana, che poi sono diventati cinque. Il mio compito, come quello degli altri giovani coinvolti, era quello di provvedere alla digitalizzazione di documenti, a volte molto antichi. La chiave del successo di questa esperienza sono state le persone: anche nelle mattine in cui ero più svogliata e demotivata c’era qualcuno che mi sorrideva, mi incoraggiava e mi dava la carica. Così sono sempre stata presente, sono riuscita a rispettare l’impegno preso. Mi sono sentita subito bene accolta in un ambiente informale, dove era facile e naturale interagire con gli altri». Col tempo ha iniziato a fidarsi delle sue capacità: «Ho imparato a usare il computer, lo scanner e Photoshop, traguardi che all’inizio mi sembravano inarrivabili, così ho acquisito una maggiore sicurezza in me stessa, sentendomi capace di svolgere i compiti che mi venivano affidati».

«Non accettavo di essere malata, mi sono rivolta a diversi psicologi, cambiando dopo ogni seduta, perché rifiutavo di riconoscermi in ciò che dicevano di me. La malattia mentale è difficile da accettare, perché non si vede, è sfuggente, impalpabile»

Come scrive Saint Exupéry «È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri, se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente un saggio». Anna per molto tempo si è smarrita nei labirinti più oscuri della sua anima. In mezzo a quel buio era difficile per lei ritrovare se stessa, la sua bellezza, i suoi talenti. Si sentiva inutile, incapace, inadatta alla vita. «Non accettavo di essere malata, mi sono rivolta a diversi psicologi, cambiando dopo ogni seduta, perché rifiutavo di riconoscermi in ciò che dicevano di me. Frequentavo il Cps (Centro per i servizi psichiatrici) ma non riuscivo a instaurare un rapporto di fiducia con i medici che mi seguivano. La malattia mentale è difficile da accettare, perché non si vede, è sfuggente, impalpabile. Ci si può sempre convincere che non esista. Ho continuato per molto tempo a chiedermi perché sia capitato a me. Una domanda che in quel periodo mi tormentava in modo devastante, come se dovessi per forza trovare in me qualcosa di sbagliato. Ho subito tanti ricoveri in psichiatria, e sono stata per due volte in clinica psichiatrica a Verona. Nel 2018 ho tentato di togliermi la vita. Ci è voluto un po’ prima di decidere di entrare in una comunità per “mettermi a posto”. In seguito sono stata molto felice di questa scelta, mi sono trovata in un ambiente positivo, seguita da professionisti bravissimi, che sono riusciti a riabilitarmi, anche se non si guarisce mai del tutto da queste malattie. Ho ritrovato il sorriso e la speranza, ho imparato a conoscere meglio me stessa, con i miei limiti e i miei punti di forza, facendo molte scoperte. La più importante è che posso ancora impegnarmi e ottenere risultati positivi».

Volontaria nel soccorso

Anna prima di ammalarsi era impegnata nel volontariato: «Svolgevo attività di primo soccorso, animazione in ospedale con i malati. Lavoravo con i disabili come assistente educatrice a scuola e a volte con gli anziani, perché ho la qualifica di Oss (Operatore socio sanitario) e intanto studiavo all’università, mi ero iscritta alla Facoltà di Lettere. Quando ripenso al passato provo un po’ di malinconia all’idea di non poter riprendere la stessa vita di prima. Mi piaceva stare accanto a persone fragili, era un lavoro basato sulle relazioni, a volte molto faticoso ma anche stimolante. Con la malattia e il crollo nervoso che ne è seguito, però, mi hanno riconosciuto un’invalidità del 75% e non è più possibile per me sostenere un impegno di questo tipo».

«Nella nostra società molti hanno pregiudizi nei confronti di psicologi e psichiatri, come se dovessero andarci solo “i matti”. Niente di più sbagliato, perché intraprendere un percorso di cura vuol dire imparare molto su se stessi»

Adesso Anna sogna un nuovo tatuaggio composto da due parole: «Hakuna Matata, senza pensieri, perché è questa la condizione che sogno di ottenere, vorrei un po’ di leggerezza nella mia vita. All’inizio sceglievo i disegni da tatuare in modo da coprire le cicatrici delle ferite che mi infliggevo, perché ero autolesionista. Col tempo però hanno assunto un’importanza diversa, come segno di trasformazione e di crescita. Ho fatto pace anche con le cicatrici, alcune ho deciso di tenerle così come sono, perché fanno parte di me, mi ricordano un periodo doloroso ma anche il coraggio e la tenacia che ho messo in moto per uscirne e potermi risollevare. Quando ho iniziato a stare meglio mi sono resa conto di quanto si siano prodigate per me le persone che ho intorno, in primo luogo medici e educatori della comunità, dove sono rimasta per due anni. È un bel pezzo di vita, ho fatto molta fatica a staccarmene. Ci sono stati momenti complicati ma anche tanti sorrisi e risate, ho instaurato legami forti. In comunità ho incontrato anche una persona speciale con cui adesso sto costruendo un progetto di vita: stiamo insieme da un anno e mezzo. Siamo entrambi in fase di riabilitazione e stiamo cercando casa insieme. Siamo stati sinceri fin dall’inizio l’uno con l’altro, ci siamo detti che è importante confidarsi quando uno di noi due sta male e deve chiedere aiuto. Nella nostra società molti hanno pregiudizi nei confronti di psicologi e psichiatri, come se dovessero andarci solo “i matti”. Niente di più sbagliato, perché intraprendere un percorso di cura vuol dire imparare molto su se stessi».

«Il mio ragazzo mi ha già dato un anello e a settembre frequenteremo il corso per fidanzati, abbiamo le fedi pronte per sposarci. So che è un passo importante, e abbiamo deciso che lo faremo quando saremo sicuri di essere autonomi.»

Anche l’amore ha contribuito alla rinascita di Anna. «Il mio ragazzo mi ha già dato un anello e a settembre frequenteremo il corso per fidanzati, abbiamo le fedi pronte per sposarci. So che è un passo importante, e abbiamo deciso che lo faremo quando saremo sicuri di essere autonomi. Ora ho trovato lavoro in un supermercato come addetta alle pulizie ma non ho ancora un contratto a tempo indeterminato, spero di riuscire a ottenerlo presto. È un punto di partenza per avere la vita che desidero».

«Prima mi chiedevo “perché a me?” Ora la domanda è diventata “perché non a me?”. Ho allargato l’orizzonte, arrivando a un livello più profondo di comprensione»

Un altro sogno rimasto nel cassetto è quello di riprendere gli studi universitari: «Questa volta, però – osserva Anna – mi piacerebbe cambiare facoltà, ricominciando da Psicologia, perché penso di poter fare tesoro dell’esperienza che ho vissuto, e di poter aiutare gli altri. Stando in mezzo alla gente ora mi accorgo subito se qualcuno prova disagio o malessere. Ho iniziato a guardare il mondo da una diversa prospettiva. Prima mi chiedevo “perché a me?” Ora la domanda è diventata “perché non a me?”. Ho allargato l’orizzonte, arrivando a un livello più profondo di comprensione. Forse c’è una ragione, un disegno anche dietro a ciò che è successo, a tutti i problemi e le sofferenze che ho dovuto affrontare: la mia vita ha preso comunque una direzione positiva, durante il cammino ho imparato moltissimo».

Il progetto ZeroUno

Il progetto ZeroUno ha rappresentato un periodo di «addestramento»: «Mi sono riabituata – racconta Anna – a rispettare gli orari, a svolgere le mansioni assegnate in modo preciso, a rispondere ad altre persone del mio operato, che sono le basi di qualunque rapporto di lavoro». Nel frattempo è tornata a vivere con la sua famiglia: «Anche i miei genitori – osserva – hanno seguito un percorso parallelo al mio con la psichiatra della comunità. Per loro è stato molto faticoso, non riuscivano ad accettare ciò che stava accadendo, nascevano continuamente fra noi scontri molto accesi. Ora però anche loro hanno imparato a distinguere quali effetti abbia la malattia ha su di me, e che a volte mi rendono diversa, forse, da come mi vorrebbero. Non me ne danno più la colpa. Sono contenti dei miei miglioramenti e delle mie conquiste. I miei migliori amici mi sono rimasti accanto anche nei momenti più difficili. Ora riesco a guardare con più distacco ciò che mi è successo e se qualcuno rivedendomi dopo molto tempo mi chiede notizie non ho problemi a raccontarlo. Penso che in futuro, quando sarò più forte, porterò volentieri la mia testimonianza anche ad altre persone in situazioni di fragilità e di crisi. Credo sia fondamentale mostrare che c’è speranza per tutti, e che bisogna avere fiducia in se stessi: è sempre possibile riprendersi e ripartire».

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