«Mi hanno salvato con due trapianti. Ora promuovo l’Ecmo per la vita»

LA STORIA. Davide Galli, 37enne di Saronno: «Procedura poco conosciuta, ma averla in ospedale è un grande vantaggio».

«Gira il tuo viso verso il sole - dice un proverbio Maori - e le ombre cadranno dietro di te». Davide Galli, 37 anni, di Saronno, con i suoi quasi due metri d’altezza, ha il fisico di un atleta. La scelta di giocare a basket a livello agonistico sembrava scritta nel suo Dna. Eppure, quando aveva solo 16 anni una malattia cardiaca l’ha costretto a prendere una strada diversa e inaspettata. Nonostante tutte le tenebre che ha dovuto attraversare, ha fatto della speranza uno stile di vita: a 29 anni ha subito un trapianto di cuore, tre anni fa un trapianto di rene, sempre all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Mi hanno salvato, dandomi una seconda opportunità» commenta con un sorriso.

Coraggio e gratitudine

Le sue caratteristiche distintive sono il coraggio e la gratitudine: è diventato testimonial Aido, ha fondato l’associazione «Ecmo per la vita» (www.ecmoperlavita.org) per far conoscere l’importanza della «ossigenazione extracorporea a membrana», che gli ha permesso di sopravvivere nei momenti più critici. Dal giorno della sua rinascita ha scelto di impegnarsi per aiutare altri pazienti.

A 29 anni ha subito un trapianto di cuore, tre anni fa un trapianto di rene, sempre all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Mi hanno salvato, dandomi una seconda opportunità»

Tutto è iniziato con la visita di controllo per il rinnovo del «cartellino» della Federazione italiana Basket: «Giocavo nella squadra del Saronno e ogni anno dovevo sottopormi alla visita medico-sportiva. Non avevo sintomi, ma l’elettrocardiogramma ha mostrato che dopo lo sforzo il mio cuore manifestava extrasistole ripetute».

Davide si è trovato in un attimo in un vortice di analisi: «Sono stato all’ospedale di Monza per uno screening approfondito, ed è emerso che il mio cuore era leggermente dilatato. Allora mi hanno consigliato di rivolgermi all’ospedale di Bergamo, per farmi visitare dal dottor Antonello Gavazzi, allora primario di Cardiologia. La diagnosi è stata dura da accettare: cardiomiopatia dilatativa al ventricolo sinistro. Questo purtroppo ha messo la parola fine all’attività agonistica».

L’adolescenza di Davide non è stata spensierata: «In un periodo in cui avrei dovuto guardare al futuro con gioia, la malattia mi ha costretto a crescere in fretta e mi ha imposto molte rinunce»

È stato l’inizio di un periodo complicato: «Poco dopo i medici hanno notato alcune anomalie nell’attività elettrica del cuore, e per controllare meglio le aritmie mi hanno impiantato un defibrillatore. Questo dispositivo ha cambiato drasticamente le mie abitudini, perché col tempo mi sono accorto di non poter più svolgere attività fisica. Ogni volta che lo facevo il defibrillatore entrava in funzione e mi provocava dolore, era come ricevere un pugno in pieno petto. Col tempo mi hanno applicato diversi apparecchi, cercando il modello più adatto alle mie caratteristiche fisiche, ma senza grandi miglioramenti».

L’adolescenza di Davide non è stata spensierata: «In un periodo in cui avrei dovuto guardare al futuro con gioia, la malattia mi ha costretto a crescere in fretta e mi ha imposto molte rinunce. Lo sport, le feste, tante amicizie. Dopo il liceo mi sono iscritto alla facoltà di Architettura ma ho impiegato molto più tempo a terminarla, interrompendo gli studi più volte a causa di ricoveri e terapie».

Il peggioramento

Nel frattempo, la patologia cardiaca di Davide ha continuato a peggiorare, fino ad arrivare al 2016, quando è stato ricoverato in ospedale per un ipertiroidismo, effetto collaterale di un farmaco: «Dovevo prendere la massima dose possibile degli antiaritmici, più di questo non si poteva fare, tanto che i medici mi avevano già messo in lista d’attesa per il trapianto di cuore. Nel giro di qualche anno da giovane dinamico e sportivo mi ero trasformato in un fantasma, che non riusciva più a uscire di casa».

Quel ricovero si è prolungato: Davide è rimasto in ospedale per quattro mesi, durante la settimana stava nel reparto di cardiologia e nei weekend nell’unità coronarica. «Una domenica, al risveglio, mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava. Mi sono alzato per andare in bagno ma sono svenuto e sono andato in arresto cardiaco. Mi hanno rianimato con fatica, e quando mi sono ripreso mi hanno applicato la Ecmo, una procedura per l’ossigenazione extracorporea del sangue, che mi ha mantenuto in vita, perché il mio cuore era arrivato al limite. I medici mi hanno detto poi che era diventato grosso come un melone. Mi hanno mantenuto in coma farmacologico, inserendomi nella lista di massima urgenza per il trapianto. Le mie caratteristiche fisiche e il mio gruppo sanguigno rendevano più difficile trovare un organo pienamente compatibile».

Ci sono voluti dieci giorni di attesa: «Il trapianto è stato in forse fino all’ultimo a causa di un versamento polmonare, ma il dottor Amedeo Terzi, responsabile del Centro Trapianti di Cuore del Papa Giovanni XXIII, dopo un’attenta valutazione dei rischi, ha deciso di procedere comunque. Dopo l’intervento sono rimasto per altri 5 giorni attaccato all’Ecmo, poi finalmente mi hanno svegliato. Non ho memoria di quel periodo, trascorso in balia di strani incubi. Del risveglio conservo poche immagini, soprattutto mi ricordo mia madre che mi sorrideva accanto al letto. È stato l’inizio della mia rinascita».

Davide è rimasto per altri nove mesi in terapia intensiva, perché si sono presentate diverse complicazioni: «Me ne sono capitate di tutti i colori. Ho avuto delle infezioni, la strada del recupero è stata lunga. Non avevo più forza nei muscoli delle gambe, ho dovuto fare tanta fisioterapia. Mi tenevano in una zona vetrata che chiamano “acquario”, dove stanno i pazienti che devono rimanere a lungo in terapia intensiva. Dopo nove mesi, finalmente, mi hanno spostato nel reparto di cardiochirurgia, dove sono comunque rimasto per altri nove mesi e finalmente ho ricominciato a vivere. Non sarei riuscito a superare questa lunga ospedalizzazione senza il sostegno della mia famiglia, e soprattutto di mia madre. Lei, mio padre e mio fratello non mi hanno mai lasciato solo, nemmeno per un giorno. Ma sono infinitamente grato anche a medici e infermieri, che mi hanno curato non solo il corpo ma anche l’anima».

«A un certo punto, in terapia intensiva, mi è venuto un desiderio irresistibile di rivedere il sole. In quel reparto il tempo non passa mai, ci sono solo i segnali acustici delle macchine e gli orologi appesi al muro. Stare chiuso lì dentro mi stava facendo impazzire. I medici hanno capito e accolto il mio desiderio e lo hanno realizzato»

Il secondo trapianto

Basta poco, spiega Davide, piccoli gesti, una parola, un sorriso, per dare una direzione diversa alla giornata: «Con una battuta riuscivano a farmi dimenticare per un attimo dove mi trovavo e ad alleggerire il peso delle terapie. A un certo punto, in terapia intensiva, mi è venuto un desiderio irresistibile di rivedere il sole. In quel reparto il tempo non passa mai, ci sono solo i segnali acustici delle macchine e gli orologi appesi al muro. Stare chiuso lì dentro mi stava facendo impazzire. I medici hanno capito e accolto il mio desiderio e lo hanno realizzato. Mi preparavano con cura, e l’anestesista, un’infermiera e una fisioterapista si prendevano il tempo necessario per portarmi sul balcone e farmi sentire il sole sulla pelle, anche per poco. Per me questa attenzione e cura, che andavano oltre il dovuto, hanno avuto un significato enorme».

Dopo qualche anno, ha dovuto subire un secondo trapianto: «I reni non funzionavano più, perciò mi hanno messo di nuovo in lista d’attesa per un trapianto. Per fortuna ho avuto il tempo di rimettermi nella forma fisica migliore e in questo caso è andato tutto bene. Mi hanno chiamato nel 2021, ancora nel pieno della pandemia, e sono rimasto ricoverato solo per cinque giorni. Ho trascorso la convalescenza a casa, tornando in ospedale solo per le visite di controllo».

L’impegno per gli altri

Ora Davide si dedica con passione all’associazione «Ecmo per la vita»: «Con me ci sono anche altri ex pazienti che hanno attraversato percorsi simili. Il senso delle nostre attività è aiutare chi si ritrova sballottato da un giorno all’altro in terapia intensiva. Per chi non l’ha sperimentato è difficile immaginare cosa questo significhi per una persona, e in particolare per i più piccoli e per le loro famiglie. I medici e tutto il personale sono bravissimi, si adoperano in ogni modo, ma resta sempre un reparto impegnativo. L’Ecmo, per di più, è una procedura poco conosciuta, e può essere usata in molti modi: per gli infartuati, per chi deve sottoporsi a trapianto di cuore e polmoni. Nel periodo del Covid ha salvato molte persone, ma è utile anche per altre patologie. Averla nell’ospedale è un grande vantaggio, in altri territori non c’è».

«L’Ecmo è una procedura poco conosciuta, e può essere usata in molti modi: per gli infartuati, per chi deve sottoporsi a trapianto di cuore e polmoni. Nel periodo del Covid ha salvato molte persone, ma è utile anche per altre patologie. Averla nell’ospedale è un grande vantaggio, in altri territori non c’è»

«Ecmo per la vita» si è quindi proposta di diffonderne la conoscenza e di fare pressione sulle Regioni che ne sono sprovviste, perché possano applicarla anche nelle loro strutture. «Oltre a questo, offriamo aiuto concreto alle persone, che si trovano nella terapia intensiva dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII e magari arrivano da lontano. Cerchiamo per esempio di fornire cuscini e poltrone, per rendere meno pesante la lungodegenza. Ci occupiamo di medicina narrativa anche per i medici, perché siano vicini ed empatici con i pazienti, considerandoli nella loro unicità. Poi entriamo con azioni di informazione, sensibilizzazione e narrazione nelle classi, nelle feste, nelle fiere. Col tempo sono diventato anche testimonial dell’Aido. Tengo incontri nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università di infermieristica. Il messaggio più importante da offrire è che la donazione è un gesto di enorme valore». L’ultima iniziativa è la realizzazione di totem di divulgazione per spiegare il funzionamento dell’Ecmo, posizionati nel corridoio d’accesso alla Terapia intensiva, per segnalare fra l’altro alle famiglie la possibilità di rivolgersi all’associazione.

«Col tempo sono diventato anche testimonial dell’Aido. Tengo incontri nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università di infermieristica. Il messaggio più importante da offrire è che la donazione è un gesto di enorme valore»

Davide si è laureato, ha ripreso una moderata attività sportiva, oggi conduce una vita piena e soddisfacente: «Ovviamente devo seguire alcune regole, ci sono medicine che un trapiantato deve assumere per tutta la vita. Dopo ciò che ho passato, assaporo ogni istante, apprezzo le piccole cose, i viaggi, le uscite del sabato sera. Ogni giorno ringrazio la persona che mi ha donato il cuore e i medici che hanno preso le decisioni giuste al momento giusto. La vita non è una bilancia perfetta, ne abbiamo solo una e vale la pena di viverla pienamente, perché è meravigliosa».

© RIPRODUZIONE RISERVATA