La Buona Domenica / Bergamo Città
Domenica 02 Febbraio 2025
«Guardo, scatto, parlo» e ricomincio. Gioco di squadra per uscire dal buio
IL PROGETTO. L’arte messa al centro del percorso educativo rivolto a destinatari di provvedimenti giudiziari
«Siamo ancora capaci di amare qualcosa. /Ancora proviamo pietà. /C’è splendore in ogni cosa». C’è speranza, suggerisce Mariangela Gualtieri con i versi di questa poesia, perfino nelle storie sbagliate, in un mondo che sembra inghiottito dal buio, nelle persone che si tuffano nella vita ma vanno a fondo.
Proprio la poesia, l’arte, la fotografia, la musica possono diventare strade inedite e potenti per guardare in se stessi, trovare nuove possibilità e seguire traiettorie di rinascita.
Il progetto «Guardo, scatto, parlo»
Lo raccontano i ragazzi coinvolti nel progetto «Guardo, scatto, parlo», a cura di Giovanna Brambilla, storica dell’arte, esperta in educazione e mediazione del patrimonio culturale, con Federico Casu, fotografo, e Chiara Magri, attrice e regista, nella cornice di «Gioco di squadra 4», progetto regionale rivolto alle persone (minori e adulti) sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. «Si tratta principalmente, - spiega Giovanna Brambilla - per i minori, della misura penale della messa alla prova, che prevede la sospensione del processo con percorsi educativi, che, all’esito positivo, portano all’estinzione del reato».
Osservare un’opera d’arte, entrare nello studio di un artista, scattare una fotografia, costruire un racconto collettivo a partire dalle proprie esperienze personali: sono state le diverse fasi di un percorso articolato di «welfare culturale», profondo, mai facile né scontato, presentato di recente in un incontro pubblico al Polaresco.
«Un’attività sociale - osserva Francesco Pandolfi, educatore di riferimento del progetto -, in cui undici ragazzi in forme e momenti diversi, attraverso la narrazione di sé, hanno portato pensieri, emozioni e riflessioni, poi condivise con altre persone. Alcuni ragazzi si sono conosciuti soltanto al momento di svolgere insieme questa attività. Hanno formato un gruppo, che è diventato contenitore di tutto ciò che ognuno di loro ha saputo dare. Hanno imparato a riconoscersi, accettarsi e confrontarsi. Si sono impegnati nel raccontare le proprie fragilità, i pensieri, le storie, mettendo in comune anche i loro punti di forza e i loro sogni».
Il progetto «Gioco di squadra»
È un progetto di rete, fondato su fiducia e collaborazione tra soggetti molto diversi tra loro: dal Comune come capofila, l’Ambito territoriale di Bergamo, fino a diversi Enti partner nell’ambito dell’educazione, formazione e orientamento al lavoro. L’obiettivo è aiutare i minori, una volta usciti dal percorso penale, a liberarsi dallo stigma sociale. Un passaggio fondamentale, dato che, come scrive Miguel Benasayag, «Il mondo distribuisce etichette e noi c’identifichiamo con queste e finiamo per considerarle più autentiche del reale che devono classificare».
L’esito della messa alla prova, prosegue Pandolfi, «dipende dalla trasformazione della personalità. Non basta fare delle attività, richiede uno sforzo proattivo, bisogna impegnarsi a fondo», prendere coscienza e rimediare agli errori del passato.
In questo contesto «Guardo, scatto, parlo» ha svolto un ruolo molto importante, aiutando i ragazzi a scavare sotto la superficie e a mettersi in discussione. «Nella prima fase - chiarisce Giovanna Brambilla - nella primavera del 2024 ci siamo ritrovati all’ex Oratorio di San Lupo, grazie a una collaborazione con la Fondazione Bernareggi. In quello spazio suggestivo, nell’ambito della mostra “Amici, Artisti, Superstar”, a cura di don Giuliano Zanchi, dopo aver esplorato il luogo e aver ascoltato le storie delle opere, cinque ragazzi ne hanno scelta una, che a loro parere li rappresentava. Ci hanno lavorato sopra, scrivendo alla fine un testo».
Non è stato un impegno solitario, l’hanno condotto confrontandosi con Giovanna Brambilla e Francesco Pandolfi, che ha seguito tutte le fasi del progetto. I testi prodotti sono stati lasciati in mostra a San Lupo, arricchendo così le opere d’arte di «pezzi di vita», invitando i visitatori a riflettere sulla relazione tra queste due componenti, e magari, in qualche modo, a rispecchiarle in sé.
Nell’opera suggestiva di Clara Luiselli «Specie di spazi», per esempio, si vedono tante finestre illuminate, un particolare intrigante, che suscita curiosità: «Mi ha fatto pensare che dietro ciascuna di loro c’era una storia - scrive uno dei ragazzi -. Io sono proprio una di quelle storie e, rispetto al mio percorso di messa alla prova, ammetto che aprire la mia finestra è stato necessario per raccontarmi e interfacciarmi con il gruppo, cercando di cambiare certi aspetti, ma non per questo aprendomi a tutti. La messa alla prova mi ha dato la possibilità di mettere in discussione le mie scelte e di imparare a essere più flessibile».
Di fronte a «Domenica pomeriggio» di Giovanni Frangi, in cui è rappresentato un cielo, un altro scrive: «Quando guardo questo quadro, penso che, anche se sono in un brutto momento della mia vita, arriverà la luce e i momenti difficili diventeranno ricordi ed esperienze che non dimenticherò mai. All’alba, quando la luce del giorno si mescola con le stelle, si crea un capolavoro naturale che mi ricorda tutte le opportunità che potrei avere. La libertà è rappresentata dal cielo, perché è senza limiti, simbolo di pace. Per me essere senza limiti significa poter fare molto, comprendere meglio me stesso e scoprire nuove esperienze che mi servono per la vita».
Il progetto è poi proseguito nello studio d’artista messo a disposizione da Francesco Pedrini, docente del Politecnico delle Arti: «Il fatto che lo studio fosse nel Lazzaretto di Bergamo - aggiunge Giovanna Brambilla - è stato molto importante: questo luogo, un tempo lontano dal centro abitato, pensato per accogliere i malati di peste e curarli, divenne in seguito carcere e sede di torture durante il fascismo e la Repubblica di Salò, infine fu restituito alla città come spazio dedicato al ritrovo e alla collettività, per manifestazioni, concerti e sport».
Un percorso analogo a quello seguito dalle persone sottoposte alla «messa alla prova», che alla fine può portare a restituirle alla società e alle relazioni. Anche le opere di Pedrini, di grande intensità simbolica, hanno toccato corde invisibili nell’animo di alcune ragazze, messe per la prima volta di fronte all’arte. Hanno reagito con interesse, lasciando emergere emozioni forti: «L’opera “Tornado” mi rappresenta - scrive una di loro -. Anche se non riesco a non sentirmi in un tornado, vorrei dei cambiamenti, che però non riesco a vedere, e non saprei da dove partire. So però che cosa desidero: un lavoro, riuscire a ottenere la patente e poi trovare una casa per riuscire a essere indipendente. Desidero che il tornado finisca, per vedere dei cambiamenti concreti, riuscire ad avere una vita serena, calmarmi, cambiare, finire la scuola e prendere una strada diversa».
Il laboratorio nello studio di Pedrini si è concluso con una performance: gli «Ascoltatori del cielo», opera ispirata agli apparecchi usati durante la Prima Guerra Mondiale per intercettare l’arrivo degli aerei. Nell’interpretazione dell’artista diventano singolari strumenti per ascoltare il cielo, la musica della natura e della città.
Con Federico Casu i ragazzi coinvolti nel progetto si sono messi in gioco per creare delle immagini, scoprendo che l’atto semplice di scattare non è neutrale, ma implica uno sguardo, uno stile, un’identità precisa: «Ognuno ha scattato otto fotografie - racconta Casu -. Nella prima parte del laboratorio siamo usciti in strada, e abbiamo cercato di rivederci attraverso altre persone, nella seconda invece abbiamo lavorato sull’autoritratto, cercando di capire diversi aspetti di sé, diversi livelli di profondità nella conoscenza di sé, nell’immagine che gli altri recepiscono, negli aspetti più profondi e inaspettati».
Le parole, infine, creano trame e incanti, come chiarisce Chiara Magri, permettono di rielaborare il proprio vissuto, di metterlo in prospettiva: «Il testo della narrazione che abbiamo costruito è collettivo, frutto di un gruppo che ha lavorato insieme, chiede di aprire il cuore all’ascolto, senza cercare trame narrative».
Antiche leggende, poesie, brani di racconti e saggi sono stati punti di partenza per un percorso di narrazione di sé capace di toccare zone sensibili, far affiorare esperienze dolorose per dare loro un senso diverso, ricollocarle in un contesto più ampio. Parole come fili che ricuciono strappi, pongono le basi per nuove letture della realtà e della memoria: «Non è stato facile avvicinarsi, aprirsi, fidarsi, ma questo lavoro ha dato risultati sorprendenti e inaspettati. I ragazzi da gruppo sono diventati collettivo, in cui ognuno ha portato memorie ed esperienze. Per me è ogni volta una crescita umana notevole. In questo caso mi sono messa in gioco con una generazione diversa e lontana, è stata una bella sfida. Il teatro è un incontro umano, e questo progetto è stato un regalo».
La cultura e i suoi linguaggi diventano un modo per combattere le «passioni tristi» di cui parlano in un saggio Miguel Benasayag e Gerard Schmit: «L’impotenza e il fatalismo non mancano di un certo fascino. È una tentazione farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio (...). È a questo che ciascuno di noi deve resistere... creando». Se la vita a volte sembra un buco nero, come scrive una delle ragazze ispirate dall’opera «Untitled» di Francesco Pedrini «in primavera si scioglie la neve e non ci sono più strade obbligate e io posso decidere dove andare. Il buco che prima era una fossa dove buttare le cose negative può diventare un abbeveratoio. Mi avvicino, mi specchio e vedo la persona che sono, e quello che vedo mi piace».
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