Cronaca / Isola e Valle San Martino
Giovedì 28 Febbraio 2019
Medolago, la picchia e la fa abortire
Finisce un incubo, in carcere 31enne
L’uomo, 31 anni marocchino irregolare, è in cella per maltrattamenti alla moglie, violenza sessuale e procurata interruzione di gravidanza: un inferno che durava dal 2016, denunciato da lei dopo la morte del feto
È in carcere per maltrattamenti, violenza sessuale aggravata dal vincolo coniugale, interruzione non colposa di gravidanza: l’aborto procurato alla moglie a forza di botte. Una valanga di accuse su di lui, un muro di gomma da parte sua. Non è vero, sostiene, che avrebbe picchiato la moglie dal 2016, con cadenza settimanale, a volte quotidiana, come gli viene contestato; non è vero che spesso sotto effetto dell’alcol l’avrebbe insultata, umiliata, minacciata, anche davanti al figlio minore di lei, avuto da una relazione precedente. Non è vero che avrebbe minacciato anche il bambino e non è vero che l’avrebbe costretta a perdere il loro bambino, che sarebbe nato a primavera non fosse stato per quell’aborto provocato a novembre dalle sue botte di ferocia «animalesca». Assistito dall’avvocato Davide Ceruti, Y. S. 31 anni (le iniziali per tutelare l’identità di moglie e figlio minorenne, ndr), marocchino di Medolago, clandestino e con precedenti di polizia per spaccio di droga, nella mattinata di mercoledì 27 febbraio ha negato tutto davanti al gip Lucia Graziosi nell’interrogatorio di garanzia in carcere dove si trova da lunedì. Arrestato dai carabinieri di Calusco d’Adda su ordinanza di custodia cautelare emessa dallo stesso giudice su richiesta del pm Carmen Pugliese.
In carcere l’uomo ha negato le contestate botte feroci, i calci al basso ventre e alla schiena della moglie, incinta di nove settimane, che a novembre avrebbero costretto la donna a una corsa precipitosa all’ospedale di Ponte San Pietro, nella speranza che il bimbo in grembo non dovesse pagarne il prezzo. Una corsa vana con un responso crudele: nulla da fare per il feto, già formato. E abortito.
Ma in fondo al tunnel della disperazione, la moglie ha deciso di risalire. A dicembre ha sporto denuncia ai carabinieri di Calusco, raccontando quell’abisso di vessazioni e umiliazioni nel quale era sprofondata dal 2016, dopo il matrimonio con Y. S. in Marocco, imposto dall’uomo col ricatto. Le offese, le percosse quando lei reagiva, trascinata per i capelli sul pavimento, la casa messa a soqquadro apposta per farla sistemare da lei perché «è il suo dovere», le chiavi della macchina sottratte per non farla andare al lavoro, col risultato di farla licenziare, il numero di telefono cambiato per tagliare i contatti con le amiche. E i rapporti sessuali pretesi sotto la minaccia di altre botte, le minacce con la pistola puntata a lei e persino le minacce sul bambino, la promessa di ammazzare lui e lei. Un’escalation di violenza, secondo gli inquirenti, a cui la donna avrebbe messo fine con la denuncia che fino allora non aveva voluto sporgere, nonostante le ripetute corse al pronto soccorso dal 2016 per aggressioni camuffate dalla stessa versione: una caduta in casa, un incidente domestico. Dopo la denuncia di dicembre, ne sono seguite altre. La donna ha allontanato di casa il marito in vista della separazione, lui un giorno ha reagito prendendola a schiaffi per strada.
Al gip, in carcere, l’uomo ha detto che sarebbe stata la moglie a impedire la separazione, usando la denuncia come forma di ricatto. Ma quando è stato arrestato, lunedì, i carabinieri lo hanno trovato appostato sotto casa di lei, come se da quella casa non volesse andarsene.
Sull’estrema pericolosità sociale del marocchino e sulla sussistenza delle esigenze cautelari il giudice non ha dubbi. Esiste il rischio che l’uomo, abbandonato, esasperi la sua violenza fino a compiere atti estremi nei confronti della moglie. Il boom dei femminicidi, a partire dall’omicidio di Curno, «inducono a ritenere estremamente concreto questo pericolo», sottolineano gli inquirenti. Nessun commento dalla difesa di Y. S..
© RIPRODUZIONE RISERVATA