Interviste allo specchio / Bergamo Città
Domenica 01 Ottobre 2023
«Produrre vino è poesia, ma anche fatica»
L’INTERVISTA. Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con Il Giornale di Brescia e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bergamasco e uno bresciano, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bergamasco. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bresciano, invece, vi rinviamo a Il Giornale di Brescia: il link in fondo all’intervista.
«Il giardino di Bergamo»: così chiamano i 650 ettari che compongono il vigneto bergamasco. Filari che crescono in una fascia collinare densamente popolata, immersi tra i luoghi del «produrre» e quelli dell’«abitare». Segno che la viticoltura è parte integrante del territorio, oltre che testimone di un patrimonio culturale materiale e immateriale dalle radici profonde. E sebbene in continua trasformazione, il vino resta capace di raccontare il territorio da cui prende vita e le sue persone.
Francesca Pagnoncelli Folcieri è una «micro produttrice» di Moscato di Scanzo, con poco più di un ettaro coltivato (sui 33 totali dedicati a questo vino), e dal 2021 presidente del Consorzio di tutela di quest’unica docg bergamasca.
Bergamo può immaginarsi anche come una «capitale del vino»?
«Non si sente tale. Il vino orobico è sempre più eterogeneo e interessante, ma il processo di valorizzazione è ancora all’inizio. Dobbiamo credere di più nella nostra potenza attrattiva».
Come possono contribuire i produttori?
«Dimostrare sempre più apertura, sensibilità e gioco di squadra. Se non abbiamo le risorse per tenere sempre aperte le porte della cantina non importa, l’importante è non chiudere mai quelle del dialogo».
Il compianto presidente della Repubblica Giorgio Napolitano disse che «il vino è l’emblema delle nostre tradizioni, della storia, della cultura e del lavoro». Lo è anche per l’identità bergamasca?
«Per quella scanzese sicuramente. In tutta la provincia si fa vino da sempre, con un forte retaggio contadino. Per cui, sì. La nostra è una storia frammentata e solo di recente ci stiamo muovendo secondo un modello più affine ai territori di successo».
Cosa vuol dire produrre vino e «cultura del vino» a Bergamo?
«Significa essere un po’ folli. Dall’esterno questo lavoro è ricoperto di poesia, ma comporta rischi intrinsechi alti. Specie se l’attività, come spesso accade a Bergamo, è di dimensione familiare. Fare cultura è altrettanto difficile: cibo e vino oggi attirano molta attenzione ma non altrettanta formazione. Chi produce vino in questo caso non solo lo vende ma ha anche un ruolo educativo».
La «narrazione» a proposito del moscato di solito indugia sugli apprezzamenti nella Russia zarista o sul fatto che è la docg più piccola d’Italia. Sono informazioni sufficienti per creare conoscenza di questo vino fuori Bergamo?
«Essere piccoli ci mette di fronte a ostacoli concreti. Tra questi, le narrative vecchie che prevalgono sulle nuove. O i pericoli dell’informazione digitale: certi siti hanno di recente diffuso contenuti falsi sul Moscato di Scanzo, affidandosi nella redazione all’intelligenza artificiale. Non condanno lo strumento ma le intenzioni degli autori. Stiamo rinnovando l’immagine del nostro vino proponendo nuovi abbinamenti e raccontando le peculiarità di ogni vigneto con il nostro “ambasciatore” Federico Bovarini. Il sogno? Un’indagine storico-geografica sulla storia di questo vitigno».
Lei è appena tornata da Londra: Oltremanica conoscono il vino di Bergamo?
«Direi di no. Per superare questa lacuna, stiamo lavorando perché vino e territori siano l’uno il volano degli altri. La Lombardia spesso non è associata a vini d’eccellenza: con gli altri consorzi e il settore dell’ospitalità siamo in rete per rendere più conoscibili i prodotti».
La superficie bergamasca coltivata a vite è un decimo di quella bresciana. Che cosa accomuna le due realtà?
«Le sfide dettate dal cambio climatico, che renderà più faticoso fare vini con buona acidità ed equilibrio. Un problema a cui vanno trovate soluzioni comuni».
Che cosa il vino orobico può imparare da quello bresciano? E viceversa?
«Dei “cugini” ammiro la capacità di unirsi attorno a un obiettivo, di creare valore a partire dal loro territorio, e la concretezza. Noi manteniamo una dimensione più piccola e parcellizzata, ma in questo può celarsi una componente intima e diretta in cui emerge maggiormente l’unicità della persona che fa il vino».
Dopo il lockdown, i consumi di vino sono in calo. Anche per il nettare di Bacco può avere spazio il concetto di «decrescita felice»?
«Credo di sì. Chi lavora con qualità saprà superare le tempeste. Si berrà meno ma meglio».
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