Una vita per strada fra cadute e risalite, amici, amore e alcol

Un libro fuori norma, fuori dai cosiddetti generi, fuori tutto, «fuori» e basta. Per lingua, stile, contenuti, punto di vista.

Della lingua, dice già il titolo: «Storia di mia vita» (Sellerio, pp. 144, euro 15), un italiano senza articoli da slavo immigrato. L’autore, Janek (Jan) Gorczyca, detto anche «Girandola», è nato nel 1962 a Stalowa Wola, città di 60.000 abitanti nel sud est della Polonia (Precarpazia meridionale). Viene in Italia negli anni ’90. La storia di sua vita comincia nell’ottobre 1998, e si svolge tutta a Roma; la lingua, questo italiano da immigrato dell’est, ne risente molto sensibilmente; e, d’altra parte, topografia, toponomastica, riferimenti di luogo sono descritti quasi puntigliosamente («il lavoro mio è essere sempre in giro…ho conosciuto benissimo Roma»).

Una vita fatta di occupazioni abusive, sgomberi, controlli di Polizia, Ufficio Stranieri, dormire sui cartoni, panini della Comunità, aiuti dei parrocchiani, ricoveri al Sandro Pertini, cercare amicizie che possano essere «un altro punto a favore del futuro». Una vita nel segno della provvisorietà stabilizzata, della precarietà fatta sistema. In cui si fronteggiano, senza mai trovare composizione, disegnando una serie continua di alti e bassi, spinte e controspinte, cadute e risalite, le opposte forze dell’alcolismo («per non pensare troppo, si beve dalla mattina fino a sera tardi»), del buio, dei demoni della mente, della «catena delle mie scemenze», e, invece, dell’amore (per Marta, a cui il libro è dedicato»), delle amicizie (anche funzionali), del lavoro, della capacità gratuita, ancestrale, di resistere («io bevo tutti i giorni ma mi salvano il lavoro e mia resistenza»).

Jan fa il fabbro, ma resta legato alla sua vita da homeless, da senza fissa dimora, da rolling stone. Diversamente da tanti suoi colleghi «invisibili» dall’inizio alla fine, ha fatto del suo vagabondare, del suo oscillare fra volontà e perdizione, un potente strumento conoscitivo, che aiuta a portare a galla quei meccanismi profondi, quel misterioso groviglio di forze nel cui perimetro tutti, non solo i senza fissa dimora, ci giochiamo la possibilità di restare a galla. Il libro si chiude con un monito sulla disastrosità dell’alcolismo («io vivo ancora ma morti per alcol non voglio neanche contare»), ma anche con la consapevolezza che, contro quella deriva, «non esistono miracoli di farmaci o altre cose, solo la volontà di noi stessi».

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