Singer: memoria privata, ma anche diario pubblico

LA RECENSIONE. Unione di memoria e letteratura, l’analisi di «Alla corte di mio padre» del Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer.

Scritto originariamente in yiddish, «Alla corte di mio padre» del Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer, ora ripubblicato da Adelphi (la prima edizione fu di Longanesi) nella bella ed efficace traduzione di Silvana Pareschi, è una singolare unione di memoria e letteratura. Testimonianza e al tempo stesso racconto di formazione, il romanzo contiene più piani possibili di lettura, che divengono di volta in volta rivelatori di una sostanza letteraria altissima che al tempo stesso vive della forza di quella che può essere definita una vera e propria autoanalisi culturale dell’autore. Già perché «Alla corte di mio padre» mette in gioco sia la cultura ebraica che la sua costituzione sociale, che vede la famiglia luogo vivace di dinamiche contrastanti come la produzione culturale d’impronta ebraica ha testimoniato negli anni (da Philip Roth a Woody Allen).

Al tempo stesso contiene frammenti vividi di memoria personale, che compongono il carattere e le ragioni del protagonista e la sua crescita formativa, che passa inevitabilmente anche attraverso il rifiuto della famiglia e della cultura ebraica.

Scritto nel 1966 superati i 60 anni, il testo è un modo per fare i conti con la memoria paterna e con quell’onda terribile che travolse tutta l’Europa e il mondo sotto lo scacco della violenza e dell’antisemitismo nazista. Il romanzo è al tempo stesso una memoria privata, ma anche un diario pubblico che intreccia dolore e tenerezza con grande commozione

Quello che è più semplicemente il passaggio tipico dall’infanzia all’adolescenza in Singer diviene il centro di uno sradicamento culturale profondo al tempo stesso inevitabile quanto non del tutto possibile. «Alla corte di mio padre» mette in scena quasi in forma teatrale una serie di personaggi efficaci e ben delineati, a tratti quasi simbolici e aderenti al loro ruolo. Riferimenti su cui di volta in volta il giovane Isaac si appoggia per poi andare oltre. Una fuga continua, un’erranza che rappresenta non a caso un destino oltre che un movimento momentaneo.

L’ironia che contraddistingue le pagine addolcisce e accompagna piano piano il lettore all’interno di logiche che possono apparire a tratti irricevibili, ma che contengono un senso profondo che può sfuggire così come sfugge non di rado al giovane protagonista. Romanzo di un tempo perduto, ma al tempo stesso felice connubio tra liberazione e nostalgia di quello che fu, «Alla corte di mio padre» rappresenta forse una delle migliori prove del Premio Nobel polacco. Scritto nel 1966 superati i 60 anni, il testo è un modo per fare i conti con la memoria paterna e con quell’onda terribile che travolse tutta l’Europa e il mondo sotto lo scacco della violenza e dell’antisemitismo nazista. Il romanzo è al tempo stesso una memoria privata, ma anche un diario pubblico che intreccia dolore e tenerezza con grande commozione.

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