Quel pizzico di vanità che sprona al successo

«Sì, d’accordo, tutto è vanità: ma chi confesserà di non volerne una fetta?»: a secoli di distanza, William Thackeray, autore, guarda caso, del monumentale «Vanity Fair», risponde, con britannico sense of humour, alla sentenza immortale dell’Ecclesiaste: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas».

Eppure di questa vanità abbiamo bisogno, come imprescindibile alimento per le nostre fatiche, d’Ercole o Sisifo che siano. Quale opera d’arte, ingegneria, industria, avrebbe potuto realizzarsi senza il concorso di un po’ di vanità? Senza il divorante desiderio di piacere agli altri, alimentare la propria autostima, ecc. ecc.? (in una settimana, premi Viareggio e Campiello), Giuseppe Berto scrive un «Elogio della vanità», esplicito calco, nel titolo, di quello, erasmiano, della Pazzia. Il testo, richiestogli come plaquette fuori commercio per gli amici della Rizzoli, finisce nello studio-babilonia di Giancarlo Vigorelli, che avrebbe dovuto stenderne la prefazione, e qui scompare. Viene poi ritrovato casualmente nel 2006, ed è ora edito da Settecolori (pp. 68, euro 12), in piena coerenza con la relativa filosofia editoriale («dar vita a un catalogo lontano dalla modernità di massa e dai suoi riti», con «attenzione particolare» a testi inediti, dimenticati, ecc.). L’elogio viaggia sempre sul crinale che lo divide dal suo opposto.

Nel 1965, un anno dopo il successo folgorante de «Il male oscuro», Giuseppe Berto scrive un «Elogio della vanità», esplicito calco, nel titolo, di quello, erasmiano, della Pazzia

Da una parte, l’uomo che ben conosceva malinconia e depressione rivaluta la vanità nelle accezioni di «fatuità», «frivolezza» e persino «mondanità», giochi innocui, come le improbabili mise del conte Nuvoletti, che regalano un minimo di allegria e leggerezza. Ma non la condanna, moralisticamente, nemmeno in quelle, più rischiose, di esibizionismo e narcisismo. Senza i quali difficilmente avremmo avuto un Giulio Cesare, un Napoleone, o persino un Leopardi. Ma, al contempo, offre una demistificazione imperdibile della squallida vanità che domina il mondo dei cosiddetti intellettuali, letterati in testa, nella figura-tipo dell’«esibizionista extraproporzionale» (la cui vanità, fama, ecc., è sproporzionata all’effettivo valore). Indefessamente impegnato in un lavoro di pubbliche relazioni, per assicurarsi connivenza e complicità di altri intellettuali-esibizionisti, in una fiera in cui rampollano sempre nuovi intellettuali esibizionisti che cominciano la scalata per conquistarsi la loro fetta di vanità.

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