Pandemia: il potere delle storie, antidoto alla paura

LA RECENSIONE. Un condominio chiuso in una boccia di vetro: un’immagine evocativa quella della copertina di «56 giorni» (Fazi) di Catherine Ryan Howard, un thriller psicologico ambientato ai tempi della pandemia.

Un’opera che sfida il desiderio di dimenticare e lasciarsi alle spalle un periodo molto drammatico, finora quindi rimasto ai margini della produzione narrativa. Le atmosfere claustrofobiche del lockdown sono narrate attraverso la storia d’amore fra Ciara e Oliver, che si incontrano per caso al supermercato e si ritrovano a vivere insieme, forzando i tempi, all’inizio della relazione, per aggirare i divieti di spostamento. Entrambi sono in fuga dal loro passato e nascondono segreti.

In seguito nell’appartamento di Oliver viene ritrovato un cadavere: inizia un’indagine che si dilata nel tempo e nello spazio, affondando negli angoli più oscuri dell’animo umano e di un periodo che ha lasciato segni profondi nella vita delle persone.

«Nel palazzo bianco» (Solferino) di Nicola Del Duce, ai tempi portavoce del ministro della Salute, racconta, invece, la pandemia dal punto di vista di chi doveva decidere dei destini di tutti, ritrovandosi al centro di un «ciclone planetario», in una sorta di romanzo di formazione collettivo.

La stessa ambientazione si ritrova in «14 giorni» (Ponte alle Grazie), romanzo collaborativo a cura di Margaret Atwood e Douglas Preston. A comporre la trama sono i contributi di alcuni fra i migliori autori contemporanei. Al centro un condominio i cui abitanti ogni sera si riuniscono per chiacchierare prima di dormire, e ognuno porta il suo racconto, reale o inventato, in una sorta di «Decamerone» dei nostri tempi. Il potere delle storie come segno di speranza, come antidoto alla sofferenza e alla paura.

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