Il piacere di leggere / Bergamo Città
Lunedì 06 Novembre 2023
Nel Dna anche le tracce delle esperienze che viviamo
Nel 2016, con «La mantella del diavolo», è stata finalista al Premio Narrativa Bergamo. Ora Cristina Battocletti, friulana, residente da anni a Milano, giornalista de «Il Sole 24 ore», per cui si occupa di critica e cronaca cinematografica, ha pubblicato un nuovo romanzo: «Epigenetica» (La nave di Teseo, pp. 172, euro 17). Scienza qui coniugata nell’accezione più specifica di studio della «trasmissibilità alle generazioni successive del patrimonio di sofferenze che chiunque di noi ha subìto». Studio, insomma, dell’eredità emotiva. Perché il Dna non è un codice fisso e immutabile, «impara da quello che gli succede nella vita». Delle esperienze che viviamo «resta traccia scritta» nel nostro patrimonio genetico.
Quanto il passato, l’esempio dei nostri genitori, possono passare nel nostro sangue, condizionare la nostra vita, i nostri comportamenti, le nostre decisioni, facendoci pensare di essere soggetti ad un destino già scritto? Non è un caso che il romanzo della Battocletti interfogli capitoli ambientati a Grado (o a Cervignano del Friuli, o a Pompei) negli anni Settanta, quando Maria, la protagonista, nata nel 1970, è ancora bambina, ad altri ambientati, soprattutto, ma non solo, a Roma e Milano, negli anni 2000. A suggerire, proporre, innescare ogni volta il tema del rapporto fra l’infanzia della protagonista e la sua vita più adulta, in una continua, potenziale dialettica, osmotica, o eziologica, o comunque problematizzante, tra diverse stagioni della vita, fra il passato della bambina e gli anni recenziori della donna.
Una mamma evanescente, totalmente inadatta al compito, verosimile archetipo dell’«incapacità di stare al mondo» della figlia. «Perché la mamma si è dimenticata di noi?» potrebbe essere la domanda che compendia il senso di un’infanzia. Una nidiata di quattro figli segnati dallo stigma dell’essere troppo «abbandonati». Il padre se ne è andato da chissà quanto, gli amanti della madre si succedono come «stranieri» in serie numerica, anch’essi destinati, prima o poi, ad andarsene. La stessa Maria, difficile dire quanto condizionata dal modello materno, abbandona suo figlio, e si sclerotizza in un nichilismo impermeabile a fiducia e speranza: tutto, nella sua lettura della vita e dell’uomo, è frutto dell’egoismo e della logica del tornaconto. Ma proprio ritrovare suo figlio, ormai adulto, sarà la luce che passa nella crepa del vaso, la possibilità di rovesciare la sua filosofia del negativo.
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