La Shoah nella memoria e il sogno di pace in Palestina

Un romanzo ambientato tredici anni fa, ma tragicamente attuale; che volutamente propone una qualche via di salvezza, fa intravedere una conciliazione possibile, per un conflitto che dura dal 1948. Edith Bruck, 93 anni, ebrea di origine ungherese, è una degli ultimi testimoni diretti della Shoah. Ha portato in un numero indefinito di scuole e incontri pubblici la memoria viva della deportazione (è stata internata dalla primavera del ’44, tredicenne, all’aprile del 1945, in diversi campi tedeschi, tra cui Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen). Nel ’54 si stabilisce a Roma, dove tuttora risiede, nel ’59 esordisce come scrittrice. «Il sogno rapito», recentemente pubblicato da La nave di Teseo (agosto 2024, pp. 108, euro 15), è il suo ultimo romanzo. Roma, autunno 2011.

Da poco svanite le tracce dell’«insensata battaglia» del pomeriggio del 15 in zona San Giovanni, dove i black block hanno distrutto banche, vetrine, macchine; ed anche quelle del nubifragio del 20 ottobre. Sulle tv ancora le immagini dello scempio del cadavere di Gheddafi, si parla delle dimissioni di Berlusconi. «Presto sarò padre» dice, uscendo di casa, il marito, Matteo, brillante ginecologo, alla moglie Sara, ancora immersa nel dormiveglia, incapace di realizzare la reale portata della rivelazione. Poi, il cellulare di lui resta, per tutta la mattina, irraggiungibile, Matteo non richiama, non si fa vivo. Cuore e mente di Sara cominciano a fibrillare. Sara è ebrea, quasi cinquantenne.

Avrebbe desiderato un figlio dal marito, cattolico, ma lui si è sempre opposto. Ora viene a sapere che lui aspetta un figlio da un’altra. Chi? Un’infermiera? Una dottoressa? Una spagnola? (tornato da un viaggio a Madrid, aveva un profumo dolciastro, non suo, sul bavero della giacca). No, non è spagnola. Layla è palestinese. All’inizio, per Sara è uno shock. Poi, sente un desiderio irrefrenabile di vedere, di conoscere quella donna. Di farle capire che, dipendesse da lei, «sarebbe già pace»: «la guerra continua è il peggiore fallimento dell’uomo». Neanche tanto sullo sfondo, la mamma di Sara, fedele alter ego della stessa Bruck. Deportata, privata, come lei, di genitori e fratellino, lontana dal paese d’origine, l’Ungheria, dove l’antisemitismo c’era prima e dopo i nazisti, si porta dentro un «peso invisibile».

Con la Shoah ancora viva, nella memoria e carne dei genitori, un appello al superamento dell’odio, anche il più naturale, tra Sara e Layla, tra ebrei e palestinesi.

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