Kang e il canto liberatorio di una generazione ferita

LA RECENSIONE. La Premio Nobel per la letteratura 2024 conferma con «Non dico addio» la forza e la capacità di agire su un punto minimo, su una protagonista esile per descrivere e dare corpo ad un tempo grande e difficile, buio e terrificante da contenere non banalizzandolo come quello che fu per la Corea la fine degli anni Quaranta.

Non dire addio è la forma di una presenza, è una pretesa e una dichiarazione d’intenti, ma contiene terribilmente la forza di un abbandono nel momento stesso in cui viene espresso. Da un lato il desiderio e dall’altro la sua fragilità, la sua altezza e il suo abisso, nel mezzo la forza icastica di una vita non di rado sorprendente quanto impossibile da governare anche al di là delle forze singole di ognuno e dei propri inevitabilmente mortali desideri.

Dopo una lunga serie di abbandoni più o meno obbligati, Gyeong-­ha la protagonista di «Non dico addio» (Adelphi, traduzione di Lia Iovenitti) di Han Kang ha deciso di rinchiudersi in uno stoico quanto straziante isolamento fatto di vento e mare e di incontri radi quanto casuale con la fauna circostante quali segni di un mondo infinito capace di precederci e di seguirci ben oltre il tempo della nostra limitata esistenza.

La Premio Nobel per la letteratura 2024 conferma con «Non dico addio» la forza e la capacità di agire su un punto minimo, su una protagonista esile per descrivere e dare corpo ad un tempo grande e difficile, buio e terrificante da contenere non banalizzandolo come quello che fu per la Corea la fine degli anni Quaranta. Una tragedia che vide migliaia di morti e atroci massacri di civili. Han Kang si muove per quadri, dando corpo ad una galleria emotiva e intima, la lotta di Gyeong-­ha rispetto alla propria vita è la lotta di un’intera generazione, una sfida verso se stessi e verso un sentimento di accoglienza che farà saltare tutti i suoi schemi e tutte le protezioni per portarla nuovamente in vita. Gyeong-­ha deve correre in soccorso in un’amica, deve muoversi e partire velocemente. E dentro questo viaggio prende forma così il miglior romanzo di Han Kang insieme a «La vegetariana», un testo che recuperando un dolorosa pagina di storia del Novecento riesce a parlare alla nostra contemporaneità, a un’isteria sentimentale condita e fatta di grandi paure come di tragici immobilismi. «Non dico addio» ha la forza letteraria di un classico e al tempo stesso la voce densa e chiara di un oggetto contemporaneo.

Il romanzo scorre sotto gli occhi pagina dopo pagina obbligando il lettore, come capitava un tempo, prima della rete e dello streaming e della connessione permanente, a leggerlo d’un fiato quasi come fosse un romanzo d’appendice. Per poi correre fino in fondo, fino all’ultima pagina per poi chiuderlo per andare via. Andare fuori a respirare sentendo addosso quel senso che ha saputo offrire come una preghiera o un canto liberatorio.

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