«Il mio libro ispirato da musica e luoghi della bergamasca»

L’APPUNTAMENTO. Angelo Carotenuto è uno scrittore napoletano che presenterà il 16 ottobre il suo ultimo romanzo «Viva il lupo» al Circolino. Al centro un talent.

Angelo Carotenuto, scrittore napoletano, giornalista specializzato in sport e musica, con larga esperienza di lavoro a Roma, sceglie di riempire il suo ultimo romanzo di riferimenti alla Bergamasca. Il protagonista, Gabriele Purotti detto il Puro, leader dei Dorita, gruppo indie rock tra i più importanti del panorama nazionale, è assurto a grande notorietà soprattutto perché chiamato a fare il giudice nel talent show più seguito della tv: «Viva il lupo» (VIL). È proprio il nome del programma a dare il titolo al libro (Sellerio, pagine 250, euro 16). L’autore lo presenterà, nella Sala Civica del Circolino, in Città Alta (vicolo Sant’Agata, 19), mercoledì 16 ottobre, alle 20.45, in dialogo con Dino Nikpalj, vicepresidente della Cooperativa Città Alta, che promuove l’incontro, all’interno della rassegna «Lib(e)ri di pensare e sognare».

Il Puro abita a Sarnico, e si definisce «bresciamasco» (offendendo sia i bresciani che i bergamaschi). Ragazzino, a tavola, sentiva parlare, con un misto di invidia e risentimento, di «quelli che avevano le seconde case in Val Seriana e le lasciavan vuote, avercene una noi…». Un giorno il padre lo aveva portato in gita a vedere gli stambecchi, perché un piano di ripopolamento ne aveva trasportati diversi esemplari al Pizzo dei Tre Signori, e «tra il passo di Valsecca e il passo della Scaletta». E così via. Tutte località familiari ai bergamaschi, ma che non si supporrebbero tali per uno scrittore partenopeo. Da un immaginario paese della Val Camonica, Ulla, viene anche una ragazzina di sedici anni, Teresa detta Tete, da come pronunciava il suo nome da bambina. Un mercoledì si presenta a un’audizione del talent, lei pura davvero: la chitarra più grande di lei, l’apparecchio ai denti, il rossore dell’imbarazzo come ti può venire «solo a sedici anni». È brava, Tete, bella voce, «bellissimo arrangiamento». Gli altri due giudici la promuovono, il Puro vota No. Paradossalmente, per il suo bene, perché istintivamente intuisce che le manca la «solidità» necessaria per (soprav-)vivere nell’ambiente: «Ho paura che in questo momento ti faremmo del male». Il venerdì successivo, Tete viene trovata morta, travolta da un treno. «Non siamo ancora sicuri che sia stato un incidente. Potrebbe essersi buttata», riferisce l’ispettrice che si occupa del caso.

L’autore lo presenterà, nella Sala Civica del Circolino, in Città Alta (vicolo Sant’Agata, 19), mercoledì 16 ottobre, alle 20.45, in dialogo con Dino Nikpalj, vicepresidente della Cooperativa Città Alta, che promuove l’incontro, all’interno della rassegna «Lib(e)ri di pensare e sognare»

Carotenuto, come mai ha ambientato il romanzo tra Bergamo e Brescia? Cosa la lega a questi posti?

«Quando è nata la storia di “Viva il lupo”, avevo bisogno di un luogo con due caratteristiche chiare: doveva essere una scena musicale vivace ma non metropolitana, non abusata, non Roma o Napoli insomma, e neanche Bologna. La seconda necessità era che fosse un’area nella quale un tempo si poteva restare isolati per qualche motivo, una sorta di contraltare geografico a quella clausura da cameretta che ogni tanto viene accostata oggi all’adolescenza. Ho scoperto negli archivi dei giornali che mezzo secolo fa i nubifragi isolavano per giorni le province di Brescia e Bergamo, tagliandole fuori da tutto. Tra Brescia e Bergamo ho potuto spaziare in un ventaglio musicale ampio, da Donizetti a Benedetti Michelangeli, dai Timoria ai Pinguini Tattici Nucleari. Così è nato Gabriele Purotti detto il Puro, il narratore della storia, trasversale alle province: vive a metà strada, a Sarnico, e va in tv a Milano in moto per fare il giudice al talent show. Non ho un particolare legame con le Valli, se non una cugina che aveva una casa a Clusone, ma ci sarò stato una volta ed è un ricordo sbiadito d’infanzia. Ho inventato il paese di Ullo per poter essere più libero e alcuni cari amici sia bergamaschi sia bresciani mi hanno aiutato sul resto con alcune indicazioni».

Perché la scelta di entrare nel meccanismo di un talent show, facendone ingrediente e scenario di primo piano?

«Nel meccanismo dei talent sono centrali ascolto e giudizio, due concetti potenti per una storia sui silenzi e i malintesi fra generazioni, sul disagio di una società di adulti fragili, convinti che la fragilità appartenga ai giovani, dove si è alzato un muro di incomprensione fra due sponde, dove è difficile essere sia figlio sia genitore».

E perché questa centralità assoluta del mondo della musica, delle carriere musicali?

«La musica è il mondo nel quale ragazze e ragazzi si ritrovano. È la lingua che parlano. Sono i testi che più volentieri imparano. È la lingua del sentire. È così per chi ha 16 e 20 anni oggi, è stato così per chi li aveva nel 1974, 1984, 1994. È l’età in cui si cerca un posto nel mondo, ne vedi le ingiustizie, le sconcezze, sogni di ribaltarlo. Gridi il tuo dolore e i tuoi desideri con le parole di altri. Eppure, cadiamo sempre e tutti nella stessa trappola: ritenere speciali i nostri 20 anni, certamente migliori dei successivi. È sempre un’altra cosa, la vita degli adulti rispetto a quella dei giovani. La musica è un riflesso perfetto di tutto questo. Siamo tutti convinti che non esistano più le belle canzoni di una volta, quando eravamo giovani noi. Lo diranno fra trent’anni i ventenni di oggi».

Come ha gestito il rapporto realtà-invenzione nel restituire il mondo dei talent?

«I personaggi reali portano i loro nomi veri dentro una reinvenzione letteraria di caratteri e azioni; quelli inventati sono tutti contaminati da schegge di biografie uscite dalle vite vere di uno o un’altra. Ho letto centinaia di interviste a cantanti di ogni epoca, mi sono divertito a strappare dettagli dalle loro biografie e spargerli nelle vite dei personaggi di finzione. Puro, Jarno, Scalza non sono copia di nessuno, sono tanti tipi frullati in una figura sola».

Può essere un romanzo sulle moltissime vittime che ci vogliono per fare pochissimi vincitori, secondo logiche spesso un po’ «sporche», casuali, non limpidamente meritocratiche?

«Vincere, avere successo, è una condizione rara, nello sport come nella musica. La condizione che appartiene alla maggioranza di noi è la fallibilità. Ma è inaccettabile che ogni sconfitta produca una vittima. Il lavoro da fare è quello di normalizzare la sconfitta. Non significa toglierle valore, anzi: significa saperla riconoscere per quello che è, cioè l’incontro con qualcuno che è stato migliore di noi, rifiutando di essere definiti da un risultato, dal numero di dischi venduti o dal numero di medaglie vinte. Non siamo le nostre vittorie né le nostre sconfitte».

È, anche, un romanzo-scavo nel senso di colpa?

«Certamente. In questa storia una ragazzina di 16 anni, piena di talento, muore sotto un treno mentre attraversava i binari in monopattino, con le cuffie e la musica alta. Incidente? Gesto volontario? Puro si lancia in una ricerca difficile, scivolosa. Fa esperienza di quel senso di inadeguatezza che ti sveglia di notte, ma alla fine del suo viaggio troverà risposte diverse da quelle che cercava, forse più utili. Il caso si diverte a prenderci in giro, quasi sempre».

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