I traumi della Grande Guerra narrati dal morto che parla

LA RECENSIONE. Da Adelphi esce ora la «prima traduzione mondiale», opera di Margherita Belardetti, di «Ich?» (pp. 150, euro 18), romanzo d’esordio, apparso nel 1926, di Peter Flamm, alias Erich Mosse

Un capolavoro dello shell shock, del trauma da granate, della nevrosi da Prima guerra mondiale, della dissociazione da sé, dell’incertezza identitaria e/o sindrome dell’impostore, che fiorì, negli anni successivi al conflitto, in casi come lo Smemorato di Collegno, o Harry Domela che sosteneva di essere il Principe Lieven di Lettonia. Da Adelphi esce ora la «prima traduzione mondiale», opera di Margherita Belardetti, di «Ich?» (pp. 150, euro 18), romanzo d’esordio, apparso nel 1926, di Peter Flamm, alias Erich Mosse, psichiatra di origini ebraiche nato a Berlino nel 1891, dopo l’avvento del nazismo emigrato a Parigi e a New York, dove fu suo assiduo paziente William Faulkner.

Il libro è come un flusso di coscienza incosciente della propria fonte, provenienza reale, identità, scaturigine. Il personaggio che dice Io, in realtà, non sa chi è, da cui il punto interrogativo del titolo. Vorrebbe narrare, ma è come impedito dal «segreto» che gli «sigilla la bocca».

Si rivolge a «signori giudici» di un processo che sa di kafkiano, sostenendo di non essere chi si crede lui sia. Di essere, in realtà, già morto, sepolto nella terra davanti a Verdun, sotto le macerie della fortezza di Duoaumont, nel campo di battaglia che ha inghiottito il maggior numero di morti per metro quadro della storia. Io? dice di essere uscito dalla trincea, animato da un sogno di rivoluzione palingenetica, e di essere caduto su un cadavere, vuoti occhi ammiccanti fra le palpebre.

Allora Io? prende il passaporto del morto, si appropria, lui umile fornaio Wilhelm Bettuch, dell’identità dello stimato chirurgo berlinese Hans Stern. Va in prima classe a Berlino e lì tutti lo riconoscono, tranne il cane Nerone, che, «come un Argo al contrario», esattamente all’opposto dell’episodio ulisside, «gli abbaia contro e lo morde». Il racconto non consegna mai tranquillizzanti certezze, oscilla sempre tra ipotesi mai confermate, per cui Hans è ma anche non è Wilhelm, come nota Manfred Posani Löwenstein nel saggio postfatorio. Una straordinaria parabola sulla scollatura dal senso di sé, sull’imporsi di un senso di irrealtà ed inappartenenza, di dubbio radicale ed onnivoro. A restituire non solo gli effetti della traumatologia psichiatrica da trincea - dopo la guerra Mosse seguì molti reduci affetti da disturbi mentali post-traumatici -, ma anche il rischio, eterno e senza geografie, inquietante e attualissimo, della perdita di senso.

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