Van De Sfroos: «Dal fondo del Covid mi ha salvato il folk». Sabato suona a Bergamo

Davide Van De Sfroos ha ripreso la via dei concerti e sabato 7 agosto suona a Bergamo, nell’arena del piazzale Alpini.

Davide Van De Sfroos ha ripreso la via dei concerti e sabato suona a Bergamo, nell’arena del piazzale Alpini (inizio ore 21; ingresso 23 euro). È una ripresa importante per Davide Bernasconi: è uscito un singolo tratto dal nuovo album «Maader Folk» che uscirà il 17 settembre per Bmg. Sono passati sette anni dall’ultimo disco di inediti «Googa e Magooga». La nuova canzone ha un attacco «mariachi», s’intitola «Gli spaesati», e parla dei legami con la tradizione. Miscelando italiano e dialetto lariano, Davide mostra una volta in più lo spaccato di un mondo pieno di grande dignità, forza di volontà. «Ho voluto dare voce a un popolo apparentemente nascosto che con antica fierezza si ostina a vivere e lavorare in modi che oggi possono sembrare anacronistici, folkloristici. Gli spaesati tengono teso il filo della nostra storia non per beffare i tempi moderni, per rispetto di quelli antichi».

Che effetto fa ripartire con tanta carne al fuoco?
«La diga che era chiusa si è un po’ aperta e il flusso ricomincia. E noi riprendiamo il racconto da dove eravamo rimasti: con i De Sfroos, la reunion, la ristampa del disco “Manicomi” che ci aveva permesso di fare qualche data in giro, anche lì a Bergamo. Con l’estate abbiamo pensato di continuare quel giro, prima di affrontare il tour del disco nuovo. È stata una bella ripartenza, il pubblico c’è, distanziato. Qualcuno ogni tanto si alza a fare un balletto, ma tutto è sotto controllo. Davide e i De Sfroos danno qualcosa in più. Ci sono i brani della vecchia band e qualche mio pezzo che viene “desfroosizzato” a dovere. Ci stiamo togliendo un po’ di quella cappa oscura che ci ha avvolto fino ad ora. È uscito anche il video del nuovo singolo. L’album doveva uscire un anno fa e invece è rimasto in cantiere. C’è anche un duetto con Zucchero».

Nel titolo dell’album una parola che dà indicazioni stilistiche precise. L’impianto è sostanzialmente folk?
«Il titolo “Maader Folk” è arrivato da solo, dopo mesi e mesi di domande. La cosa rimasta in gestazione per più tempo è stata il titolo. Ne avevamo tanti in testa, ma nessuno rappresentava idealmente il disco, la storia di come e quando è nato. In qualche modo ci ha pensato il Covid a farmi decidere. Mentre avevo addosso il virus, ero a letto con la febbre, tenevo la musica accesa. Erano i giorni di Sanremo e sentivo tutte quelle sonorità nuove. Nel dormiveglia mi appare una figura femminile che mi dice: resta attaccato a me che sono la madre folk; alla fine il folk ci sarà sempre. Siamo legati alla terra, ci sarà sempre uno che ti racconterà ciò che è radicato. Quell’immagine mi ha talmente calmato che ho messo le cuffie, ho ascoltato una canzone di Phil Ochs e nei giorni successivi sono andato a risentirmi tutto il Dylan acustico. Dopo “Googa e Magooga”, introspettivo, legato alle mie questioni personali, “Maader Folk” torna a parlare della terra, del folk, degli spaesati, dei muratori, della valle, delle donne che rimanevano sole quando gli uomini partivano in cerca di lavoro. Nel disco ci sono suoni e linguaggi magari diversi dal solito, ma le storie sono tenacemente legate al folk».

All’inizio di «Spaesati» si sentono trombe mariachi.
«Sono quelle della fanfara Beirut che riportano il suono a “Janez”. Accanto ci sono canzoni con sonorità diverse mantecate nel mio stile. Cinque o sei pezzi sono sistemati a prodotti da Taketo Gohara, compreso “Spaesati”. Questo disco ha voluto lasciarsi andare, abbandonarsi alla sperimentazione di cose nuove. Ci sono conchiglie che vengono suonate, sonorità che spaziano da un mondo all’altro, alcune più celtiche, altre country rock».

Cantautore, scrittore, autore televisivo, alla base c’è sempre il racconto. Diversificare è una strada per continuare a narrare?
«I linguaggi s’intrecciano fortemente. E non sembra assurdo dire che uno sia figlio dell’altro e valga anche il verso contrario. In principio era il verbo, diceva qualcuno. Da bambino la prima cosa che ascolti è la fiaba o il racconto di un anziano che trasforma la montagna davanti a te o l’acqua del lago in qualcosa di dark, gotico, romantico. E dopo aver ascoltato le storie, viene il desiderio di contenerle e di crearne delle altre. Prima ancora di prendere in mano una chitarra avevo quaderni pieni di storie e fantasie. Poi lo strumento è servito per raccontare, non per diventare chitarrista. La chitarra e i quattro accordi folk dovevano servire a navigare dentro le storie».

© RIPRODUZIONE RISERVATA