Una domenica con Delphine Dora, eclettica esploratrice del suono

IL CONCERTO. Al Daste dal 27 ottobre tornano gli eventi musicali «Sunday Morning». Ospite la pianista francese che rappresenta una delle anime più curiose e sorprendenti del panorama avant-folk europeo.

Ritornano i «Sunday Morning», ovvero i concerti della domenica mattina ideati da «Invisible°Show», il collettivo che dal 2011 propone eventi musicali itineranti e di ricerca, ospitando artisti italiani e internazionali. Organizzato in collaborazione con Daste (Spazio Daste in città) il primo appuntamento è per domenica 27 ottobre (ore 11:30 inizio concerto) con la performance della prolifica pianista e improvvisatrice francese Delphine Dora.

Minimalismo e improvvisazione

Eclettica esploratrice del linguaggio e del suono, Delphine Dora è una delle anime più curiose e sorprendenti del panorama avant-folk europeo, capace di forgiare un universo musicale in continua metamorfosi, disposto tra più lingue (inglese, francese, tedesco, lingue immaginarie) e generi (minimalismo, improvvisazione, elettroacustica, folk). Curatrice dell’etichetta Wild Silence con cui ha proposto altre insoliti sperimentatrici (Powerdove, Sophie Cooper, Jackie McDowell), Delphine Dora ha registrato buona parte della sua musica su audiocassette in edizioni limitatissime e curate a mano. Se dei suoi album il più celebre e orchestrato è L’inattingible (2020), per Julia Holter tra i migliori dischi del decennio, sono diverse decine i titoli a suo nome come le sparse collaborazioni, da un duo con Marina Gusina sulla poesia di Marina Cvaeteva a progetti noise e d’avanguardia (suonando, tra gli altri, con Andrew Chalk, Josephine Foster e Valentina Magaletti).

Poesia tradotta in musica

Artista visiva autodidatta e lettrice di rara sensibilità, ha dedicato interi album a tradurre in musica l’opera poetica degli autori più amati: Sylvia Plath (Conversations among the ruins, 2013), Kathleen Raine (Eudaimon, 2018), Ingeborg Bachmann (Dunkles Zu Sagen, 2019), Walt Whitman (Multitudes I-II, 2013-2017), senza contare gli adattamenti di versi da Saint John Perse, Georg Trakl, Verlaine o Novalis, secondo una sensibilità letteraria che approda fino a Sarah Kane e al Molloy di Beckett.

La voce del luogo

A suo agio sia con antichi organi a canne che con sintetizzatori e tastiere, immersa nell’atmosfera di chiese come di riserve naturali, Dora si trasforma spesso nella voce del luogo, insieme incarnata e spettrale, intima e sperimentale. Le sue litanie estatiche esplorano il subconscio del folk in forme di beatitudini astratte e reali, cerimoniali senza tempo intessuti di voce e pianoforte, cinguettii d’uccelli e suoni rurali, intuizioni elettroniche e droni appena percettibili. Avvicinata a Christina Carter, Brigitte Fontaine e Meredith Monk, Delphine Dora pare evocare tanto i minimalisti americani quanto Satie e Debussy, tra fantasmagorie fin de siècle e chiaroscuri d’avanguardia. La sua è musica senza premeditazione, una cartografia personale fatta di radiosi flussi d’incoscienza, d’impressioni fragili e cangianti, sul limite estremo della musicalità.

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