«Tolo Tolo? La realtà anche peggio
Il film di Zalone mi ha tolto il sonno»

«Il film è piuttosto realistico, ho fatto pure io lo stesso viaggio. L’incubo libico. E senza le ong tutti morirebbero in mare». Il giovane Fode racconta il suo punto di vista sulla pellicola più vista in sala cinematografica in questi giorni.

«Tolo Tolo» è un film che fa ridere un po’ di meno rispetto ai soliti di Checco Zalone, e fa pensare un po’ di più. Dipende anche dagli occhi di chi lo guarda: qualcuno si fa quattro risate in compagnia; un altro inizia a porsi qualche domanda; a Fode «Tolo Tolo» lo ha fatto piangere. Del resto era prevedibile: lui, 24 anni, musulmano, è un ragazzo africano, da quasi 4 anni in Italia: dal 2019 lo ospita a Longuelo il parroco, don Massimo Maffioletti, in casa sua. Ha un giro di amici che gli vogliono bene, e tre universitari il 6 gennaio, per chiudere in bellezza le feste di Natale hanno pensato di portarlo al cinema, forse anche per distrarlo dai drammi della sua vita.

Che film scegliere? Ma quello di Zalone naturalmente, leggero, divertente, lo stanno andando a vedere tutti, e poi parla anche di Africa, no? Non è stata una grande idea: man mano che sul grande schermo passavano le scene-topiche di «Tolo Tolo», Fode si incupiva sempre più. A un certo punto anche i suoi amici hanno smesso di ridere. Hanno cominciato a guardare quel film in un’altra chiave.

Fode per due notti non ha dormito. «Zalone – dice - descrive tante cose vere, ad esempio quando si vede che Checco ha finito i soldi e deve cominciare a vendere i suoi vestiti: è successo anche a me. È vero anche che se io sono un piccolo commerciante nessuno mi chiede di pagare le tasse: se qui in Italia uno prova ad aprire un’attività deve fare tanti documenti... Certe parti nel film sono realistiche. Alcune situazioni però io le ho vissute molto peggio, le prigioni libiche per esempio: nel film si vede questo gruppo di africani che si ribella e riesce a fuggire, uccidendo una guardia. Ma se un africano ammazza un libico, l’ho visto a Tripoli, loro ne uccidono 100 di noi. Scappare non è affatto facile, e se uno ci riesce, per gli altri che restano è la morte».

Lei ha fatto un po’ lo stesso viaggio dei protagonisti, giusto?

«Io non avevo tanti soldi, ed ero da solo».

Cosa faceva prima?

«Il contadino, e anche il tintore. Sono un figlio adottato, i miei genitori naturali sono morti durante la guerra in Sierra Leone. Una signora mi salvò la vita, portandomi in Guinea che avevo 4 anni. Ma ricordo molto poco della mia infanzia. Ho studiato, la mia lingua nativa è il mandingo ma parlo e scrivo arabo, e francese».

Perché ha deciso di partire?

«Il mio papà adottivo nel 2008 è morto e la sua eredità doveva essere divisa tra me e i miei 4 fratellastri. Nei villaggi in Africa si vive tutti insieme, oggi cucina tua moglie, domani cucina la mia, e tutti mangiano. I soldi contano meno che qui da voi».

Nel film si vede, in positivo, questa comunità allargata, in contrasto con la famiglia di Zalone che si è ritrovata sul collo i suoi debiti e lo vorrebbe morto.

«Da noi tutti fanno le cose insieme, di solito c’è la pace. Però non sempre: i miei fratellastri non hanno voluto dividere l’eredità con me e mi hanno molto maltrattato (Fode mostra le foto di una decina di tagli che gli hanno lasciato sul corpo, ndr). Ho dovuto abbandonare la scuola perché non avevo più nessuno che mi mantenesse. Non avevo futuro. E ho pensato di andare in Libia, avevo sentito che lì, almeno finché c’era Gheddafi, aiutavano i ragazzi che volevano studiare. Avevo 17 anni».

Pensava già di venire in Italia?

«No, affatto. Ho attraversato la Guinea, sono entrato nel Mali, poi in Burkina, Niger...».

È un viaggio di migliaia di chilometri, attraverso il deserto.

«Non avevo soldi per pagarmelo tutto. Ad Agadez, salendo sul camion il poliziotto ha preso tutti i soldi che avevo. Tra lì e la Libia ci sono cento barriere, e ognuno che ti ferma vuole dei soldi. Ora che arrivi al mare non ne hai più. E quando non ne hai più ti prendono a bastonate e finisci in prigione. Loro vendono la gente».

Il viaggio nel deserto è duro?

«Ognuno può prendere solo 20 litri di acqua, ma non bastano, sono 10 giorni di viaggio».

E quando l’acqua finisce?

«Dipende. Anche nel film si vede che se scendi dal camion e non rientri in tempo ti lasciano indietro, e se non hai la fortuna di incontrare qualche auto di quelle che sorvegliano il deserto, resti lì e muori. In Libia io sono rimasto tre anni, terribili. Prima ho fatto il manovale, vicino a Sirte. Non ci sono contratti, ogni mattina vai in centro, vengono a prenderti e ti portano a lavorare. A volte finisci la giornata e non ti pagano. Qualcuno ti dà 10 o 20 dinari, qualcun altro ti dà solo il cibo per sopravvivere. Così ho deciso di andare a Tripoli, ma mi hanno fermato e catturato: sono rimasto nella prigione di Beni Walid sette mesi. Per ognuno che consegnano, ricevono dei soldi».

Senza nessuna imputazione.

«Se non hai denaro né documenti, ti portano lì. Poi costringono tutti a chiamare le loro famiglie che mandino denaro. È successo anche a me, ma io non avevo nessuno. Ti mettono in mano un cellulare e nel frattempo ti picchiano, così i parenti sentono le urla, si commuovono e mandano il denaro. Magari vendono la loro casa per cercare di salvarti la vita. Ma se non hai soldi rimani là dentro, a loro non importa nulla».

È vero che le donne devono concedersi ai loro aguzzini?

«I libici vengono a cercare la donna: ma se una si fosse rifiutata e ribellata, come fa Idjaba nel film, avrebbero ucciso tutti noi. Nel mio gommone c’era una ragazza nigeriana che i carcerieri avevano costretto ad andare con loro proprio prima della partenza: è morta in mare».

Come è arrivato in Italia?

«A Sabrata vengono la mattina alle 4 a prenderti, con un grande furgone, nel cortile del campo. Tutti escono ma devi correre per riuscire entrare nel gruppo di quelli che partono. La mattina che mi sono imbarcato io sul gommone hanno caricato 121 persone (a volte ce ne mettono anche 160). Prima te lo fanno gonfiare. Dopo quattro ore in mare il motore non funzionava più. Loro ti danno un numero di salvataggio, non c’è la faresti mai ad arrivare in Italia senza l’aiuto di qualcuno che ti viene a prendere».

Le famose ong.

«Senza di loro tutti morirebbero in mare. A noi hanno dato un cellulare ma senza ricarica: siamo rimasti tre ore in balia del mare, il gommone era bucato e affondava sempre più. A un certo punto, con un po’ di fortuna abbiamo incrociato una nave grande, al largo della Tunisia. Diverse persone stavano già morendo: quando qualcuno cedeva, scivolava verso il fondo del gommone e non potevi fare altro che salire sopra di lui per cercare di restare a galla. Dalla nave ci hanno lanciato una cima, io so nuotare e sono riuscito a salire, ma non basta la tua forza per salvarti, ti deve aiutare Dio. Il mare era cattivo, il tempo brutto, salire su una nave così alta è difficile, hai le mani gelate... A un certo punto è arrivata una grande onda che ha buttato il gommone contro il fianco della nave: su quel lato sono finiti tutti schiacciati. Ci siamo salvati in 26, gli altri 95 sono morti: i corpi se li è tenuti il mare».

Ed è sbarcato a Lampedusa.

«Il 30 aprile 2016. Ci sono rimasto solo dieci giorni, 3 in Sicilia e poi ho fatto un campo di lavoro a Urgnano. Sei mesi. Sono venuto una prima volta qui a Longuelo, ho fatto qualche lavoro in oratorio e ho conosciuto don Massimo. Ho lavorato anche all’Orto botanico di Città alta per tre mesi, intanto ho preso la licenza di terza media, ma è entrata in vigore una nuova legge sull’immigrazione e non potevo più continuare quel progetto. Ho provato a tornare al Sud, a Brindisi, raccoglievo pomodori, meloni, olive: 5 euro all’ora, 30 euro per 8 ore. Alloggiavo nel dormitorio di via San Vito, il 3 novembre sono arrivati i Carabinieri per fare un controllo: normalmente devono starci 80 persone, eravamo più di 250. La comunità di Longuelo mi ha richiamato qui a Bergamo: ho fatto una nuova richiesta di asilo, ma dicono che posso tornare nel mio Paese perché lì non c’è la guerra».

In Libia c’è. In Guinea… Insomma, il film di Zalone è una favoletta.

«Dopo averlo visto, ancora adesso quando vado a letto fatico a dormire».

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