Teatro e cinema del Sacro: dialogo in musica dietro le sbarre

«Joseph & Bros» di Ignazio de Francesco va in scena giovedì 10 ottobre a Colognola. Le storie di tre carcerati si incrociano. Berti: in nove metri quadri devono trovare una chiave di convivenza.

In una cella di un carcere italiano, tre uomini: un vecchio siciliano ex sicario di mafia, un giovane magrebino incastrato per droga e un uomo di mezz’età, forse ebreo, misterioso e colto, in galera per un raptus. Che cosa lega, che cosa divide, questi tre uomini che vengono da sponde diverse del Mediterraneo e si trovano a dovere espiare, in una cella minuscola, delitti tanto diversi? Sintetizzato all’estremo sono questi i protagonisti e il contesto che fanno da sfondo a «Joseph & Bros», lo spettacolo teatrale di Ignazio de Francesco, con Alessandro Berti (anche regista), Savi Manna e Francesco Maruccia che apre, giovedì 10 ottobre (con inizio alle 20.45) al Cineteatro di Colognola, a Bergamo, la nuova Stagione di «Teatro e Cinema del Sacro» (ingresso gratuito con offerta libera, prenotazione obbligatoria su eventbrite.it).

Si tratta di un progetto culturale promosso dall’Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Bergamo, in collaborazione con altri Uffici diocesani (Ufficio per l’Età Evolutiva, Ufficio per l’Insegnamento della Religione Cattolica, Ufficio per la Pastorale delle Comunicazioni Sociali, Ufficio per la Pastorale delle Persone con Disabilità, Ufficio per la Pastorale Scolastica, Centro Missionario Diocesano) e organizzato dalla Fondazione Adriano Bernareggi e Acec-Sas con il supporto specialistico di DeSidera.

Francesco Maruccia (Salvo), Savì Manna (Ahmad) e Alessandro Berti (Gadi) interpretano il testo, basato sulla vicenda biblica di Giuseppe e i suoi fratelli, scritto da Ignazio de Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, la comunità fondata da Giuseppe Dossetti. Si occupa di letteratura cristiana antica in lingua siriaca e di fonti islamiche dell’epoca classica. Collabora con il Gruppo Islam dell’Ufficio nazionale ecumenismo e dialogo interreligioso-Cei, testo recentemente pubblicato da Zikkaron in «Vivere senza la chiave».

Ne abbiamo parlato con Alessandro Berti.

Cominciamo dal titolo: è meglio «Giuseppe e i suoi fratelli» o «Joseph & Bros»?

«“Joseph & Bros” perché il gioco è quello che “Joseph & Bros” è “Giuseppe e i suoi fratelli” però è detto in inglese perché parallelamente alla storia, che è quella di tre uomini che si trovano in carcere, ci racconta anche la passione musicale di questi tre detenuti che formano una sorta di band carceraria, che si chiama appunto Joseph & Bros e che ovviamente richiama il tema dello spettacolo».

Come è nato lo spettacolo?

«Da un testo che Ignazio de Francesco ha scritto quando si trovava in Palestina dopo i fatti del 7 ottobre dello scorso anno, proprio in conseguenza della guerra».

I protagonisti quindi sono questi tre uomini che si trovano in carcere.

«Sì, è una storia di carcere, i tre condividono la stessa cella. Sono tre uomini molto diversi: ci sono un vecchio sicario di mafia, un giovane magrebino mussulmano incastrato per droga, ma forse innocente, e un personaggio un po’ strano, “normale”, più borghese, più colto, di cui si sa qualcosa ma in modo vago, un uomo di origine ebrea, laico».

Tre uomini quindi diversi per formazione, cultura, religione.

«Assolutamente sì: tre culture, tre religioni e anche tre traiettorie personali molto diverse».

Tre vicende che fatalmente si intrecciano.

«Sì, devono trovare una chiave di lettura comune vivendo in questi nove metri quadri, una chiave di convivenza, di senso, di dialogo».

Senza svelare troppo, cosa succede a questo punto?

«Succede che bisogna “tirar fuori le carte”, come si dice in carcere, cioè tirar fuori ognuno la propria storia, quella che li ha portati in carcere. Per esempio il mio personaggio, Gadi, è molto reticente perché è uno di quelli che hanno fatto un errore una volta nella vita e poi lo pagano per trent’anni, frutto di una normalità che poi è esplosa. Invece il ragazzo mussulmano, che probabilmente è innocente, ha molta voglia di raccontare la sua storia, una storia di tradimento, di sfortuna, la storia di un disperato. E l’ultimo è un personaggio molto intrigante perché è un uomo che si è pentito, ma non si considera il classico “pentito di mafia”, ci tiene e a dirlo, non è il pentito che ha denunciato altri. No, si è pentito per se stesso, è un uomo di una religiosità popolare, di una devozione cattolica tipica del Sud Italia come ce la immaginiamo e che racconta del suo battesimo malavitoso. Il tema insomma è un po’ quello, per tutti e tre, della fraternità tradita».

Infatti basandosi sulla vicenda raccontata nella «Genesi» potrebbe rappresentarne una sorta di calco moderno.

«Sì, è proprio così, nel senso che, come Giuseppe è stato tradito, infamato, venduto dai fratelli, tutti e tre i protagonisti condividono una storia di tradimento».

Uno spettacolo che però, dal microcosmo della cella, si espande al macrocosmo della Storia, soprattutto se lo caliamo nel periodo che stiamo vivendo.

«Sì, c’è una guerra e il racconto è stato scritto proprio all’inizio di questa guerra. Ignazio de Francesco racconta quando sentiva il rumore degli elicotteri sopra la propria testa e vedeva cadere i razzi. È assolutamente nato in una situazione di guerra anche se lo racconta in modo molto discreto, però molto incisivo, breve ma molto chiaro».

Restando su questo argomento nello spettacolo si accenna anche a una «fratellanza mediterranea», sarà mai possibile arrivarci?

«Ignazio sostiene che è necessario, non solo possibile, però che la soluzione dovrà comunque essere politica. Ignazio è un sostenitore della tesi “due popoli due Stati”. Il testo accenna anche brevemente, in un dialogo finale, alla storia dei tentativi di arrivare a quella soluzione rinfacciandosi gli errori commessi da entrambe le parti. In questo momento una soluzione sembra impossibile e invece c’è la possibilità ed è una assoluta necessità. Ignazio de Francesco dice questa cosa che secondo me è molto bella: “Ho ambientato in un carcere questa storia perché quel territorio è un carcere a cielo aperto, non solo per i palestinesi ma anche per i coloni israeliani che sono chiusi come in un ghetto”. È una maledizione, questa cosa deve essere superata».

Parlavamo della musica che ha un ruolo importante.

«Molto importante, nel senso che ho immaginato anche un percorso parallelo di riabilitazione, di uscita dal disagio. Noi tre attori suoniamo e cantiamo, “Joseph & Bros” è un vero e proprio gruppo musicale composto da due chitarre e un violino, un gruppo che fa le prove, che suona. L’elemento musicale costituisce anche un modo per far passare alcuni temi forti in modo più lieve, più dolce».

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