Simone Moro: «I giovani non sognano, vivono il loro tempo nel mondo virtuale»

Alpinista, re degli invernali sugli Ottomila racconta le sue storie di montagna e di vita al figlio. E ne nasce un libro.

Vivere la passione per la montagna e trasmetterla agli altri, soprattutto ai più giovani. È con questa finalità che Simone Moro, uno dei più famosi alpinisti al mondo, il re degli invernali sugli Ottomila, con oltre 60 spedizioni alle spalle, ha deciso di togliersi gli scarponi (ma solo per poco) e indossare i panni dello scrittore, per dare alle stampe la sua fatica editoriale dal titolo «A ogni passo - Le storie di montagna e di vita che racconto a mio figlio» (Rizzoli, pag. 276, euro 14,90), in libreria dal 16 novembre.

Moro, mettersi davanti al pc dev’essere stata anche questa una bella impresa?
«Non è facile scrivere un libro ma, come si sa, a me le cose facili non piacciono. È il mio 13mo libro e non sarà di certo l’ultimo. La narrazione, la scrittura mi piace molto, è importante perchè ritengo possa essere di ispirazione per qualcuno».

Qualcuno la potrebbe emulare?
«Dico solo che dalla lettura di un libro puoi accendere una fiamma che può alimentare prospettive future. È successo così anche per me. Leggendo i volumi di Messner mi sono detto: “voglio diventare come lui”, anche se non lo sono diventato (si schernisce Ndr)”».

Cos’è per lei la scrittura?
«Scrivere un libro è un gesto di generosità, non tengo per me i ricordi, ma li condivido».

Ma è anche mostrarsi, talvolta mettersi a nudo…

«Vero. Anche se riflettendo su ciò che lei ha detto, mi viene in mente ciò che mi diceva una mia maestra, che forse non c’è più. Mi rimbrottava affermando che non sarei stato in grado di mettere assieme due pensieri, una paginetta. Invece non è andata così. Ma non c’è nessuna voglia di rivalsa o di rivincita».

Devo dire che è successo anche a me…
«Ecco, pensi allora se di fronte a quelle parole che suonano come un verdetto avessi deciso di mollare tutto. Scrivere è pure un modo per farsi conoscere, anche per chi ha raggiunto una certa notorietà».

Con questo libro lei vuole insomma avvicinare la gente alla montagna?
«È così, ma attenzione non è un libro tecnico. È un libro pensato per i bambini, i ragazzi. Per i giovani di oggi è più difficile sognare, perché vivono costantemente in un mondo troppo virtuale, mentre hanno bisogno di sporcarsi le mani, di cadere, di picchiare le ginocchia a terra, insomma devono fare esperienze reali».

Ma quando ha pensato a questo progetto editoriale?
«Durante la pandemia ho avuto molto tempo da dedicare a mio figlio Jonas e ho notato la curiosità in lui. Mi faceva continuamente domande sulle spedizioni e su tanti altri argomenti. Così ho iniziato a raccontargli le mie esperienze giovanili, nei boschi. Gli ho detto: vuoi sapere qual è la cosa più importante che imparai grazie alle mie escursioni su e giù per il Riolo? Che più esplori il mondo, più ti accorgi che tutto cambia. Ed è bello che sia così. Ma allo stesso tempo ti accorgi che puoi accogliere questi cambiamenti dentro di te senza cambiare mai».

Non aneddoti, ma un vissuto quotidiano vero, genuino, autentico…
«Jonas è rimasto affascinato, stregato dai miei racconti, tutti episodi e circostanze di trenta o quarant’anni fa quando, calamitato dalle vette, ho fatto la prima “fuga da alpinista”, con tanto di piccozza, a Santa Caterina Valfurva ritrovandomi da solo in un mondo completamente nuovo. Poi ci sono storie che hanno tanto da insegnare sulle emozioni – come la paura di cadere nel vuoto –, sulla prudenza da osservare sempre in montagna e sull’importanza di scegliersi grandi esempi e maestri che per me sono stati, fra gli altri, Messner o Camós. Scoprire l’alpinismo è un’avventura unica, di meraviglia e stupore, ma va anche affrontata con le competenze e gli strumenti giusti. Ed è per questo che, alla magia e alla saggezza dei racconti, i ragazzi possono trovare nel libro una serie di utili schede di consigli pratici».

In questi giorni si è fatto un gran parlare di clima fra i grandi della Terra. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Anche a 8000 metri è palese e innegabile il riscaldamento globale. Non aspettiamo che qualcuno ci risolva il problema. È dai comportamenti personali che dobbiamo iniziare, non aspettiamo un altro G20 o qualche legge. Iniziamo da subito con le piccole cose: abbassare la temperatura dei termosifoni, fare la doccia in 120 secondi, 180 per le signore d’accordo. Se lo facessimo tutti – siamo miliardi su questo pianeta - sarebbe già un bel passo».

Ora per lei è giunto il momento di ripartire?
«Sì, fra 15 giorni sarò in Nepal per affrontare la salita del Manaslu (8163 m.), l’ottava montagna più alta del mondo, e del Manaslu Pinnacle (7992 m). Questa montagna mi ha già respinto 3 volte, ma ci vuole perseveranza, non diciamo resilienza».

I tre tentativi del 2015, 2018 e 2020 fallirono a causa della quantità di neve caduta in pochi giorni che rese la scalata impossibile. Chi saranno i suoi compagni di spedizione?
«Ci saranno di nuovo Alex Txikon, poi il nepalese Abiral Rai e il pakistano Sajid Alì Sadpara».

Quindi in bocca al lupo!
«E no. A chi va in montagna non si dice così. Me l’ha insegnato Mario Curnis. Si saluta dicendo: “E porta a casa lo zaino”».

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