«Racconto le foto che hanno fatto
la storia, simboli dalla forza evocativa»

L’INTERVISTA. Mario Calabresi, direttore di Chora Media, mercoledì 22 gennaio sarà in Sant’Agostino per «Come suona una fotografia» dedicato agli autori che con i loro scatti hanno plasmato il nostro immaginario collettivo.

Esattamente tre anni fa, il 10 gennaio 2022, nasceva il podcast «Stories», frutto del lavoro di Mario Calabresi e Cecilia Sala. Già direttore de «La Stampa» e «La Repubblica» lui, nel 2020 co-fondatore e a tutt’oggi direttore di Chora Media, «la prima podcast Company italiana»; collaboratrice del «Foglio» lei, reporter da zone di guerra o aree di crisi, notoriamente vittima di una carcerazione ritorsivo-ricattatoria in Iran, dal 19 dicembre all’8 gennaio scorso.

Mario Calabresi sarà protagonista, mercoledì 22 gennaio, alle 18,30, nell’Aula Magna dell’Università in S. Agostino, per il calendario della Fiera dei Librai di Bergamo diretta da Daniele Rocchetti, dello spettacolo «Come suona una fotografia», fondato su foto e testi dal suo «A occhi aperti» (prima ed. Mondadori, 2013; seconda ivi, 2023). Selezione musicale a cura di Luca Micheli.

Il libro è una raccolta di 12 capitoli, nati dall’incontro diretto, de visu, con altrettanti grandi fotografi contemporanei, da Steve McCurry a Sebastião Salgado, da Alex Webb a Letizia Battaglia (la definizione «interviste» suonerebbe riduttiva e imprecisa). Autori di scatti che «hanno plasmato il nostro immaginario collettivo», che sono diventati simbolo, icona, estrema sintesi di un pezzo di Storia.

Calabresi, tutti hanno chiesto a Cecilia Sala cos’ha provato in quei 21 giorni. Ma lei, Mario, cos’ha provato durante la sua prigionia?

«Un’angoscia grandissima. Cecilia lavora con me, era andata lì per la mia casa editrice di podcast, Chora. Una storia che ci ha tolto il sonno. La pensavamo, la pensavo ogni minuto. Io sto mangiando, io sto andando a dormire, ma chissà lei se mangia, se riesce a dormire. Una situazione terribile anche perché questo viaggio era iniziato sotto auspici completamente diversi: una nuova stagione dell’Iran dopo l’elezione di un presidente dello schieramento riformista, il Ministero degli Esteri che aveva deciso di aprire il paese ai giornalisti stranieri, erano andati la Cnn, dei giornalisti francesi… Sembrava ci potesse essere un clima favorevole. Poi invece è successo qualcosa di inatteso, l’arresto di questo ingegnere iraniano a Malpensa e la cattura di Cecilia non perché avesse fatto qualcosa di sbagliato, ma semplicemente perché italiana, presa come una sorta di ostaggio, di pedina da scambiare».

Dopo la liberazione?

«Un grandissimo senso di liberazione, una gioia infinita per il suo ritorno».

Del racconto di Cecilia, che non tutti magari conoscono, cosa l’ha impressionata di più? Cosa vorrebbe prioritariamente trasferire agli altri, al cosiddetto pubblico?

«Lei è tornata a casa dopo tre settimane, ma ci sono molte donne, in questo carcere di Evin, che sono lì da mesi, da anni, solo per essere oppositrici del regime, o straniere accusate di spionaggio o altri reati, perlopiù senza fondamento. E sono tenute, spesso, come è stata tenuta lei, in completo isolamento, in condizioni terribili, in una cella in cui si dorme per terra, dove riuscire a reggere anche psicologicamente è molto difficile».

Perché era in Iran? Le aveva dato delle consegne? Scelta autonoma di Cecilia?

«Lei voleva andare e io le ho detto che poteva andare, per il clima, come dicevo, che pareva favorevole, positivamente mutato. Avevamo ottenuto un regolare visto giornalistico. In tutto quello che ha fatto è stata accompagnata da una persona dell’ambasciata iraniana».

Passando alla serata di mercoledì, come è concepito lo spettacolo? Che rapporto ha con il libro «A occhi aperti»?

«Lo spettacolo contiene alcune foto, che sono nel libro, di cui racconto le storie. Insieme, però, c’è la musica. Coniughiamo narrazione e musica per dare profondità alle immagini, per raccontare le storie che ci sono dietro».

A proposito di Iran: ce n’è tanto nel libro, per il tramite delle foto di Abbas: l’Iran dello scià Rehza Palavi, di una certa occidentalizzazione, e poi quello di Khomeyni e degli ayatollah.

«Mi piacciono i fotografi che fanno progetti di lungo periodo, che studiano, che sanno intercettare tendenze e fenomeni. Abbas, iraniano che viveva a Parigi, oggi purtroppo scomparso, era andato in Iran perché aveva capito che lì stava per succedere qualcosa. Infatti, mentre è lì a fotografare l’Iran dello scià, arriva la rivoluzione, Khomeyni, la cacciata di Reza Pahlavi».

Cosa fa la magia e la forza di una fotografia? Foto se ne scattano miliardi, ma poche segnano, o plasmano l’immaginario, la sensibilità collettiva… È, anche, un fatto, in qualche modo, di mercato, diffusione, forza mediatica, «ubicazione»?

«No. Credo che sia la capacità di cogliere un’atmosfera significativa, un attimo che sia esemplificativo di una cosa. Le foto che hanno fatto la storia, che diventano un simbolo, hanno una loro forza evocativa di un tema più largo».

Come ha scelto i suoi 12 «eroi», o, più pianamente, interlocutori?

«Devo essere onesto: molto mi sono basato sulle mie passioni. Erano, sono i fotografi che amo. È un libro nato da una passione personale. Sono felice che molti abbiano condiviso questa mia passione».

Come distinguere una volontà quasi eroica di contaminarsi, di mettere tutto sé stesso nella e non sopra la mischia,, di condividere/consentire il punto di vista delle «formiche», come le chiama lei, da una forma di necrofilia, spasmofilia, fotografia (o tv o giornalismo) del dolore?

«La differenza sta nel rispettare le persone che hai davanti. Nel momento in cui ti metti in mezzo a loro, sei con loro, allora le rispetti. Nel momento in cui rispetti le cose e le persone non c’è voyerismo o pornografia dell’immagine. Questa c’è quando l’occhio è distante, furbo, speculativo».

È la drammaticità storica degli eventi che fa la forza di uno scatto iconico? C’è un rapporto necessario fra queste due cose, o possono essere slegate?

«Possono essere anche slegate. Lo si vede bene nelle immagini di Josef Koudelka, che racconta quando i sovietici invadono Praga: la foto più potente e simbolica non vede morti, feriti, sangue, carrarmati che schiacciano persone, ma un anziano con una cartella in mano che tira una pietra a un carrarmato. Ti fa vedere, con grande potenza, la protervia dell’invasore, e la disparità delle forze in campo».

Perché ha scelto questa foto come copertina? Uno scatto di Alex Webb, immigrati illegali che dal Messico tentano di passare negli Usa, sorpresi a San Ysidro, California.

«Per due motivi. Uno perché è una foto meravigliosa, un’immagine perfetta: il tempo sembra sospeso, i colori sono incredibili, il contrasto tra cielo scuro e i fiori. E poi perché è un tema oggi universale. In quel posto, a sud di San Diego, allora c’era un muretto alto 60 cm coperto di fiori. Oggi c’è un muro alto più di tre metri con filo spinato e telecamere. Allora l’immigrazione era qualcosa di più semplice, accettato, normale; oggi è il tema politico numero uno».

Tra le molte che sono nel libro, quali tre foto sceglierebbe, su tutte, per testimoniare la potenza, l’efficacia, la sensibilità del mezzo? A quali è particolarmente legato?

«Mi piace molto la foto di Letizia Battaglia in cui si vedono il gatto e il topo che camminano lenti: è la foto simbolo del degrado. Il gatto non rincorre il topo e il topo non scappa, perché sono sazi di spazzatura, perché il degrado è così grande che il gatto e il topo non fanno il loro mestiere. Una foto anche ironica, che rivela quale possa essere il potere di denuncia della fotografia. Poi i lavori di Salgado sulla Serra Pelada, la miniera d’oro a cielo aperto, il formicaio umano: la capacità della fotografia di denunciare cose immense che nessuno vede. E poi la foto della copertina».

«Video Killed the Radio Star». Il video rischia di uccidere anche la fotografia? In che cosa un singolo scatto può superare, quanto a espressività, capacità di raccontare/testimoniare, una ben più lunga e storia per immagini? E l’attuale eccesso di immagini ha effetto diluente?

«La moltiplicazione dell’immagine fa perdere rilevanza all’immagine. Però rispetto al video lo scatto singolo ha una forza evocativa maggiore. Il video ha tanti elementi che possono anche distrarre».

«Toscani diceva che si riesce a fare la differenza ogni volta che si mette in discussione la propria comfort zone»

Oliviero Toscani è scomparso da poco. Cosa pensa del suo stile da agent provocateur, della sua ricerca di impressionare?

«Era molto efficace. Ha fatto veramente la storia della fotografia. Un anno e mezzo fa ho fatto un dibattito con lui, molto interessante. Diceva che si riesce a fare la differenza ogni volta che si mette in discussione la propria comfort zone. Se si fanno cose che ci rassicurano, che ci fanno sentire tranquilli, non stiamo facendo bene. Dobbiamo ogni volta sfidarci, andare un po’ più in là, provare a immaginarci qualcosa che cambia la prospettiva».

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