«Nelle fotografie di Basilico il ritratto di una Milano-paese, da qui è nata la città»

LA MOSTRA. Si apre venerdì 14 giugno ad Astino la mostra a cura di Corrado Benigni. A 11 anni dalla morte del grande fotografo esposte immagini inedite. La moglie Giovanna Calvenzi: «Restituiscono le sue emozioni».

A undici anni dalla scomparsa di Gabriele Basilico, la mostra «Ambiente urbano, 1970-1980» , che si inaugura venerdì 14 giugno, alle ore 18.30, al Monastero di Astino, ci conduce alle origini dell’inconfondibile sguardo sulla città di un maestro della fotografia, che è stato capace di cambiare anche la nostra visione del paesaggio urbano.

Promossa da Fondazione Mia e curata da Corrado Benigni, la mostra (allestita fino al 10 novembre) sarà anche accompagnata da un volume bilingue, italiano e inglese, pubblicato da Electa, ricco di 100 immagini, con testi di Corrado Benigni e Fulvio Irace.

«Ambiente urbano» propone 50 immagini in bianco e nero, molte delle quali inedite, realizzate negli anni Settanta a Milano, prima di «Ritratti di fabbriche», uno dei progetti più importanti della fotografia italiana contemporanea. In attesa dell’apertura, abbiamo chiesto alla moglie del fotografo, Giovanna Calvenzi, di aiutarci a tratteggiare il ritratto autentico del grande fotografo.

Lei ha insegnato storia della fotografia ed è stata photo editor per diverse testate italiane. Basilico le chiedeva mai un parere sul suo lavoro?

«Io e Gabriele abbiamo avuto vite professionali parallele, ma ci muovevamo all’interno dello stesso ambiente e avevamo le stesse conoscenze. Nel suo lavoro era del tutto autonomo, ma spesso mi mostrava i suoi libri, che sono sempre stati il suo obiettivo finale. Tuttavia, ogni volta che gli dicevo che avrei cambiato qualcosa, lui mi rispondeva che avevo ragione ma poi proseguiva come voleva lui. Questa sua totale autonomia è una cosa che ho sempre, profondamente stimato».

Però avrà una sua lettura, da moglie ed esperta di fotografia, della chiave del lavoro di Basilico.

«Avendo lavorato con numerosi fotografi, credo di avere una visione realistica del panorama della fotografia e posso affermare che Gabriele è uno dei pochissimi fotografi che è riuscito a trasformare tutti gli incarichi professionali in percorsi personali. Riusciva a rileggere l’ambiente urbano con un’apparente oggettività, ma in realtà era capace di restituirlo con la stessa emozione che lui ha provato e che proviamo noi quando guardiamo il suo lavoro. Dalla Normandia a Beirut, da Shangai a San Francisco, tutti i suoi progetti sono stati commissionati, ma è sempre riuscito a declinarli nella sua interpretazione personale. Il lavoro in mostra ad Astino, invece, è uno dei pochi che ha fatto per se stesso, portandolo avanti per almeno tre anni».

E se arrivava una commissione che non rispecchiava i suoi interessi?

«Non è mai successo».

Ciò significa che tutti avevano ben chiaro quale era il suo modo di scandagliare il paesaggio urbano.

«Quando nel 1983 ha presentato al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano la sua mostra “Milano. Ritratti di fabbriche”, Gabriele collaborava con le maggiori riviste di architettura, che non facevano che chiedergli delle fotografie “alla Basilico”. La cosa lo faceva sorridere, ma era anche una conferma che la sua cifra funzionava».

La mostra a Bergamo è stata preceduta da un impegnativo lavoro di archivio?

«La ricerca è stata lunga ma semplice, perché l’archivio di Gabriele oltre che essere analogico è perfettamente ordinato. La ricerca iconografica è partita dal negativo n. 165 del 1960, il primo in cui compare la rilettura dello spazio urbano e di qui - con l’aiuto del giovane collaboratore del nostro studio Andrea Elia Zanini - Corrado Benigni e io siamo andati avanti, scegliendo immagini che Gabriele aveva già selezionato contrassegnando i provini con una crocetta rossa».

Ma sono emersi anche tanti inediti.

«Tantissimi, perché prima di dedicarsi, tra il 1978 e il 1980, al progetto “Milano. Ritratti di fabbriche”, Gabriele ha fatto numerosi sopralluoghi nelle zone che poi sarebbero diventate i ritratti delle industrie milanesi. Abbiamo inoltre deciso di conservare per la mostra il titolo di “Ambiente urbano”, che può sembrare poco accattivante ma che è quello che Gabriele aveva assegnato a questo lavoro».

Nella mostra quale Milano è rappresentata?

«Racconta una Milano che era un paese e non certamente una metropoli, anche come qualità della vita e di relazioni tra le persone. Nelle fotografie di Gabriele si vede una Milano che non conosciamo più ma che è bello conservare, non per nostalgia ma perché è da qui che è nata la città di oggi».

La mostra rappresenta anche Gabriele Basilico?

«Tutta la mostra lo rappresenta perfettamente, ma l’immagine cui io sono molto affezionata è uno dei suoi ultimi ritratti, che fotografa un operaio, grande, grosso e bello, in mezzo alla strada. Da quel momento in poi ha sempre evitato di fotografare la gente, anzi per scattare aspettava che tutti se ne andassero, per immortalare la città senza intrusioni».

Come era il Gabriele uomo dietro il Basilico fotografo?

«Era una persona molto generosa, e tanto era serio quando era al lavoro quanto era divertente e scherzoso con gli amici e nella vita privata. Il suo archivio è pieno di immagini, che nel corso degli anni gli abbiamo scattato io e i suoi assistenti, in cui appare felice o quando, a fine lavoro, saltava e giocava. Questo aspetto è ben presente anche nel recente docufilm, realizzato da Sky Arte, “L’infinito è là in fondo”. Il regista Stefano Santamato, appassionatosi al lavoro di Gabriele da quando era studente di architettura, inizialmente aveva di lui l’idea di una persona seriosa, severa, mentre gli abbiamo rivelato che era sempre così allegro e felice! Alla fine, il suo film restituisce un ritratto a tutto tondo di Gabriele in cui anche gli amici lo hanno riconosciuto».

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