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Martedì 21 Gennaio 2025
Microbioma, antropologa di Bergamo impegnata nelle ricerche in Antartide
L’INTERVISTA. Elena Bougleux, dell’Università di Bergamo, per tre mesi nella spedizione «Antarctic-ome»: «Raccogliamo campioni in ambiente estremo e ne studiamo il ruolo nel benessere individuale e nelle malattie».
Passare tre mesi in Antartide per raccogliere «campioni di microbioma umano in ambiente estremo e isolato»: è l’esperienza a cui sta partecipando la professoressa Elena Bougleux, associata in Antropologia culturale all’Università di Bergamo e membro dell’unità di ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Durante l’estate antartica, sino a febbraio, rimarrà alla «Mario Zucchelli», una delle due stazioni scientifiche italiane in Antartide, per partecipare al progetto «Antarctic-ome» (Trasmissione del microbioma umano - comunità dei microbi che vivono all’interno e intorno all’uomo - nell’ambiente estremo, confinato e controllato dell’Antartide).
Il progetto, finanziato dal Mur nel contesto del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide e gestito dal Cnr per il coordinamento scientifico, dall’Enea per la pianificazione e organizzazione logistica delle attività presso le basi antartiche, e dall’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – Ogs - per la gestione tecnica e scientifica della nave rompighiaccio Laura Bassi, avrà la durata di due anni, ed è il risultato di una collaborazione tra Università di Trento, Università Ca’ Foscari Venezia e Università della Tuscia.
Professoressa, in che cosa consiste, in parole semplici, e che fini si prefigge il progetto «Antarctic-ome»?
«Il progetto, di natura fortemente multidisciplinare, mira a mappare la trasmissione orizzontale del microbioma umano in una comunità isolata in un ambiente estremo, mediante gli strumenti della bioinformatica, della microbiologia e dell’etnografia. Ha come target lo studio di una comunità di estranei, isolata poiché non ha rapporti con il mondo esterno, che convive nello stesso ambiente e nelle stesse condizioni, condividendo spazi di vita e di lavoro. In una comunità isolata e numericamente limitata come questa della base è possibile tracciare la trasmissione orizzontale del microbioma, che avviene anche quotidianamente con le persone e con l’ambiente in cui normalmente viviamo».
Perché è stato scelto l’Antartide?
«In un contesto estremo ed isolato le interazioni tra persone sono amplificate, ed essendo la comunità studiata abbastanza piccola - circa 70 persone -, è possibile tenerla “sotto controllo”, mappando con precisione le relazioni tra persone, tra persone e spazi, tra spazi comuni e oggetti condivisi. Inoltre, qui siamo soggetti alla radiazione ultravioletta per 24 ore al giorno, e siamo esposti a condizioni di temperature estreme, tutti elementi che influenzano il microbioma».
Che temperature dovete sopportare?
«La temperatura della base è come quella di casa, anzi a volte anche più calda, possiamo stare in maglietta. Fuori, invece, adesso che siamo in piena estate, abbiamo qualche grado sotto lo zero quando non c’è vento. Nei giorni di vento, che sono la maggioranza, si percepiscono -18, -20 gradi, è l’effetto del così detto wind chill, che va preso molto sul serio perché, tipico dell’Antartide, si alza all’improvviso e cambia in pochi minuti la temperatura e quindi la resistenza all’esterno».
Avete dovuto fare un training, un allenamento preventivo?
«Sì, tutti i partecipanti alla missione devono superare un protocollo di visite mediche piuttosto severe, e per quelli che vengono per la prima volta come me è necessario superare anche un addestramento di dieci giorni, in cui si impara a gestire le situazioni estreme, sul ghiaccio e in acqua, in elicottero e su roccia. Si apprendono nozioni di primo soccorso, e come funzionano gli accordi internazionali che riguardano l’Antartide regolati dal Trattato Antartico, a cui l’Italia ha aderito nel 1981».
C’è un alto stress anche di tipo psicologico? Alludiamo a convivenze forzate, in luoghi ristretti, con tante persone che non avete scelto, in un ambiente ostile, lontani dagli affetti «abituali»…
«Sì, certo, il confinamento si sente molto, è innegabile. Ma la comunità della base è molto varia, ci sono dottorandi e ricercatori esperti, palombari e guide alpine, tecnici di ogni tipo, oltre a due medici, cuochi, piloti… Un microcosmo ricco e completo. Dal mio punto di vista di docente universitaria è una palestra didattica e di vita bellissima, anche se difficile».
Qual è, specificamente, il suo ruolo, e come si coniuga a quello degli altri ricercatori?
«Il progetto “Antarctic-ome” si svolge lungo tre linee parallele, e io le sto svolgendo tutte e tre. La prima è la raccolta settimanale dei campioni biologici dei colleghi che hanno aderito al progetto. La seconda è il campionamento periodico degli ambienti. Per questa parte di solito lavoro di notte per non interferire con le attività in corso. La terza linea è legata alla mia disciplina, l’antropologia culturale, ed è lo studio etnografico della comunità che abita la base. Si svolge sempre, con i colleghi con cui collaboro, secondo le loro attività, parte non ha orario né calendario, e ha la precedenza su tutte. È la più difficile e anche la più divertente. La sua funzione è di creare una timeline multilivello, allineata con la vita della base, su cui “leggere” i dati dei primi due tipi di campionamento».
Lei ha dichiarato che «sarà importante integrare la metagenomica con un approccio antropologico, per tracciare e modellare la trasmissione del microbioma attraverso diverse reti sociali e di interazione». Cosa significa, in parole semplici?
«Nella nostra piccola comunità le relazioni sociali sono inevitabilmente piuttosto strette, ma in ogni caso esistono micro-reti più piccole entro cui si creano relazioni preferenziali: coloro che lavorano insieme, oppure condividono le camere (da 4 posti), la strumentazione di lavoro, il tempo libero dopo cena. Per seguire le tracce della trasmissione del microbioma ci appoggiamo anche a questa ricostruzione».
Quali i benefici per la medicina, la cura della salute umana, che si spera di ottenere?
«Se il microbioma si trasmette in modo orizzontale e il nostro microbioma può essere modificato da elementi esterni, come già confermato da vari studi, possiamo iniziare a individuare le cure per le malattie di origine metabolica, legate al sistema immunitario e/autoimmuni. O almeno cominciare a studiare i meccanismi di intervento sulla trasmissione di elementi del microbioma che supportano la protezione da malattie infettive e metaboliche, per arrivare a quella che si chiama “medicina personalizzata” anche rispetto al microbioma».
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