Il bergamasco dietro le quinte della fiction Rai: «Don Matteo parla a tutti, è un unicum nella televisione»

L’INTERVISTA. Originario di Zogno, Mario Ruggeri è lo sceneggiatore e capo scrittura della fiction della Rai che è giunta alla 14a stagione.

C’è un po’ di Bergamo in una delle serie televisive targate Rai di maggior successo degli ultimi anni, arrivata ormai alla quattordicesima stagione. Mario Ruggeri, sceneggiatore e capo scrittura della fiction «Don Matteo», è infatti originario di Zogno. «Don Matteo» è appena tornato in tv: giovedì scorso è andata in onda la prima puntata della nuova stagione, trasmessa su Rai 1 in prima serata.

Ruggeri, lei vive quindi da pendolare tra Zogno e Roma?

«Sì, è così. Ho la famiglia a Zogno ma dal lunedì al giovedì vivo a Roma».

È difficile?

«È come la vita di tutti i pendolari».

Come è arrivato a fare questo mestiere?

«Mi sono laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano e poi ho conseguito un Master in scrittura televisiva. Sono stato assunto per uno stage nel 2003 alla Lux Vide, una società leader in Europa nella produzione televisiva, che ha prodotto serie come “Che Dio ci aiuti”, “Un passo dal cielo” e “Doc”. Io ho iniziato subito con “Don Matteo” e poi ho scritto altre fiction come “Blanca” con Maria Chiara Giannetta e Giuseppe Zeno o come “Devils”, una fiction italiana, britannica e francese interpretata tra gli altri da Alessandro Borghi e Patrick Dempsey».

Da dove trae ispirazione per trame e personaggi? Segue i suggerimenti del pubblico?

«Noi sceneggiatori ci ispiriamo alla realtà che ci circonda, che è spesso molto più fantasiosa dell’immaginazione. Per quando riguarda i suggerimenti del pubblico, sinceramente tendo a non seguirli. Leggo ciò che viene pubblicato sui vari canali social dalla fanbase, ma resto dell’idea che non bisogna dare al pubblico quello che chiede, al contrario, bisogna farglielo desiderare ma non concederglielo. Bisogna sparigliare le carte».

La figura del sacerdote sembra aver perso purtroppo parte del suo carisma. Il successo di «Don Matteo » può essere spiegato anche con questo vuoto che si è creato nella società?

«Come diceva Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai, il successo di “Don Matteo” si basa sulla presenza di due figure fondamentali, il prete e il carabiniere, che nonostante tutto rimangono delle figure di riferimento importanti. Sono felice che l’immagine del prete offerta in questa fiction sia molto positiva, mentre negli ultimi anni si tendono ad amplificare le vicende negative che riguardano i sacerdoti. Questo significa secondo me tornare alla realtà dei fatti: la stragrande maggioranza dei sacerdoti è costituita da bravissime persone, che operano per il bene della comunità».

Si tratta di un messaggio importante, soprattutto per i giovani…

«Assolutamente sì. E a questo proposito c’è un dato non molto conosciuto che riguarda “Don Matteo”: la serie è molto seguita dai giovani. Circa il 25% del pubblico è costituito da ragazze e ragazzi che hanno meno di 25 anni. E tra loro ci sono molti laureati».

Nelle prime stagioni la trama era incentrata sul genere giallo, mentre nelle successive vi siete spostati verso la commedia e si è dato più spazio alle vicende sentimentali. C’è una ragione alla base di questo cambiamento?

«“Don Matteo” è una fiction che dura da 25 anni e il merito della casa di produzione è stato quello di adattare il format al passare degli anni. All’inizio andava moltissimo il genere crime, poi abbiamo capito che alla gente piaceva anche la commedia, perciò è stato introdotto il personaggio interpretato da Nino Frassica. Negli ultimi anni ci siamo resi conto che il pubblico era attirato dalle trame sentimentali e ultimamente abbiamo introdotto anche le linee “teen” dedicate ai più giovani. Abbiamo insomma cercato di mettere tutto insieme con una sorta di lavoro di ingegneria, realizzando un prodotto che è un unicum nel panorama televisivo, presente solo in Italia. Lo chiamiamo multistrand, cioè multigenere. È una fusione di generi molto difficile da realizzare e che non viene fatta all’estero».

Ed è ciò che vi ha permesso di rimanere sulla cresta dell’onda nonostante i cambiamenti nella società e nel modo di fare televisione…

«Esatto, siamo rimasti sempre fedeli al format cambiando lentamente, è stata una lunga transizione».

Come è stato lavorare con un grande attore come Terence Hill?

«Per me è stato un vero privilegio. È sempre stato un mio mito e quando l’ho incontrato per la prima volta ho pensato “allora esiste davvero!”. Io definivo Terence un “principe russo”, perché è sempre educato, composto, super professionale e attento a tutto. Questo è uno dei motivi del successo ventennale della serie: se colui che ha il ruolo principale si comporta in modo educato e professionale, a cascata anche tutti gli altri colleghi e collaboratori devono comportarsi nello stesso modo».

E cosa mi dice di Raoul Bova, che dopo l’addio di Terence Hill è entrato nella serie con il ruolo di don Massimo?

«Raoul mi ha sorpreso molto per la sua umiltà. La prima cosa che ha chiesto è stata di incontrare Terence, per una sorta di passaggio di consegne. Voleva in un certo senso la sua benedizione, desiderava che il suo predecessore fosse contento. Così abbiamo organizzato l’incontro. Sono due persone che si assomigliano molto, entrambi umili e pacati, trasmettono positività e hanno voglia di fare bene».

I suoi progetti per il futuro?

«Stiamo lavorando alla terza stagione di “Blanca” e stiamo già pensando a “Don Matteo 15”. Ho anche una nuova serie in uscita per Netflix, “Mrs Playmen”, con Carolina Crescentini e Filippo Nigro. Mi cimento in qualcosa di molto diverso da “Don Matteo”, vedremo come andrà».

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