I disegni di Gaia Alari sul magazine del New York Times

DA BERGAMO NEGLI USA. Ha lasciato gli studi di medicina per l’arte. Ora la sua illustrazione scelta per la copertina della rivista domenicale. Un mese di lavoro, 600 bozzetti.

Classe 1988, originaria di Bergamo, studi al Liceo classico Paolo Sarpi e all’Università Statale di Milano in Medicina e Chirurgia. Per poi cambiare completamente direzione. Lei è Gaia Alari e ci racconta il suo percorso: «Ho sempre avuto la passione per l’arte, ma non l’avevo mai approfondita. È iniziato tutto per caso, realizzando un ritratto veloce di una mia amica su un biglietto di auguri. Ho capito che forse avevo talento…». Da lì, studi di arte contemporanea, visite su visite alle mostre, consultazioni di cataloghi. E poi qualche lavoro presso gallerie, soprattutto in Danimarca e in Francia. Sino all’ultimo grande traguardo: autrice di copertina, animazioni e illustrazioni per la cover story del «New York Times Magazine» del 2 giugno, la rivista domenicale americana inclusa nel «New York Times».

Così Alari spiega il suo passaggio da semplice fruitrice ad artista attiva: «Alla Fondazione Prada di Milano ho scoperto l’immagine in movimento come arte. C’era qualcosa di mancante nell’arte statica: l’elemento narrativo». E continua: «Ho iniziato a fare animazioni nel 2020, durante la pandemia, prevalentemente da sola e con un metodo basico fatto di carta, penna e pastelli, continuando a studiare e lavorare, ispirandomi all’arte contemporanea e cinematografica».

Una carriera, quella dell’artista bergamasca, che ha attraversato video musicali, commerciali, lavori per etichette sia major sia indipendenti. Arrivando oggi alla produzione del suo primo film, da lei scritto e diretto, e appunto all’importante incarico per il «New York Times Magazine». L’aggancio è arrivato su Instagram direttamente dalla Deputy Art Director Annie Jen, che le ha proposto di illustrare il racconto di Sam Anderson, redattore della rivista e vincitore nel 2017 del «National Magazine Award» per un articolo sul David di Michelangelo. Alari si è dunque messa all’opera ed ha proposto uno storyboard talmente convincente da farle meritare – contro ogni previsione e «gerarchia», trattandosi della sua prima collaborazione – il posto in copertina. Su cui risalta un’immagine tanto semplice quanto potente: «Ci sono Sam, l’autore, e Walnut, il suo cane. La storia parla di come lo scrittore sia riuscito a elaborare un lutto grazie al suo amico a quattro zampe. Gli animali, infatti, hanno una maniera di vivere la morte quasi più matura degli esseri umani: esistono finché non esistono più, semplicemente». E così, l’immagine in copertina non mostra l’uomo in scala di grandezza superiore rispetto al cane, bensì il cane (di una razza generica) molto più grande del padrone, che a sua volta si sdraia sull’animale. Chiarisce Alari: «Di solito sono i cani a sdraiarsi a pancia in su, in segno di fiducia. Io invece ho messo Sam in posizione di resa: è lui a fidarsi di Walnut, che gli può insegnare tutto. Tra le altre cose, che loro due non sono poi tanto diversi».

Un tema caro all’illustratrice, che già in numerose occasioni si è occupata del mondo animale e del suo simbolismo. Per questo racconto, che parla di amore e di morte, di speranza e di perdita, Alari ha realizzato quasi seicento bozzetti: una sorta di flip-book, in cui ogni frame è un disegno fatto e finito a mano, con carboncino, pastelli a cera e a olio, poi messo in linea con tutti gli altri in un programma di editing per creare l’animazione.

Un mese di lavoro intenso, che le è valso una bella soddisfazione oltreoceano. E con l’intelligenza artificiale dilagante, c’è anche una spinta che preme in direzione opposta: quella che ricerca qualcosa di più artigianale, che non ha paura di mostrare il processo, sbavature e sbagli compresi, e che lasci il calore della traccia.

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