«Han Kang, un classico del futuro»

L’INTERVISTA. Lia Iovenitti ha tradotto i libri della scrittrice coreana, Premio Nobel della letteratura 2024. «I suoi romanzi sono ricchi di incursioni poetiche, anche gli spazi bianchi in pagina fanno parte del testo».

A soli 54 anni, la coreana Han Kang, è la scrittrice più giovane, finora, ad aver vinto il Premio Nobel per la letteratura. Autrice di sei romanzi (i più famosi sono «La Vegetariana» vincitore nel 2016 del Man Booker Prize e «Atti Umani»), di alcune raccolte di racconti e di poesie. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia da Adelphi s’intitola «Non dico addio». La vicenda narrata ripropone un fatto storico, un trauma che ha scosso la Corea devastata dalla guerra, tragico e indimenticabile anche se si vorrebbe obliarlo.

Parliamo di Han Kang con la sua traduttrice, Lia Iovenitti, che vive in Corea. Laureata in giapponese e coreano, ha lavorato come traduttrice e interprete alla segreteria dell’Ambasciata italiana a Seoul per 10 anni. Poi si è dimessa per aprire una società di consulenza nel settore business, un’attività che porta avanti ormai da 12 anni. È coautrice del libro «Benvenuti in Corea» (Mondadori Electa 2022), e ha vinto il premio Korea Literature Translation Award conferito dal Ministero della Cultura coreano.

Signora Iovenitti, ha incontrato o sente spesso Han Kang?

«Sì, ho avuto la fortuna di conoscerla. È successo durante la presentazione di “Non dico addio” in una delle principali librerie di Seoul, città in cui vivo e lavoro da oltre 25 anni. A dispetto della sua immagine, è una persona affabile, con una forte e bella energia. Non abbiamo avuto modo di parlare molto, io ero emozionatissima. Ma del resto, come ripete sempre, lei parla attraverso i suoi libri. Prima di vincere il Premio Nobel per la letteratura, Han Kang in Corea era già una star. Dopo l’uscita di Atti umani (2014), libro amatissimo dai lettori di tutte le età, e dopo la vittoria del Booker International Prize per La vegetariana (2016), ha assunto quasi un’aura di mito, forse anche dovuta al fatto di essere riservata e di centellinare le comparse in pubblico».

Si parla di lei come di una poetessa brava quanto la narratrice.

«Han Kang è anche “una” poeta: una delle sue prime pubblicazioni è proprio una raccolta di poesie, non ancora tradotta in italiano. Non so se si possa stabilire una scala di valori, perché i suoi romanzi sono ricchissimi di “incursioni poetiche”. Anche gli spazi bianchi fanno parte del testo, è una sorta di architettura poetica della pagina. Mi sforzo sempre di rispettarli, anche se il coreano è graficamente più compatto dell’italiano. Nella mia esperienza, ci sono solo due soluzioni per rendere questo tipo di scrittura poetica: leggere e memorizzare poesia italiana di qualità, e il tempo. Checché se ne dica, uno degli ingredienti essenziali di una buona traduzione è il tempo, e devo dire che Adelphi non mi ha mai fatto sentire il proverbiale “fiato sul collo».

Il libro «La Vegetariana» pare sia stato tradotto con delle grosse sviste.

«È vero, la traduzione di Deborah Smith è stata bersaglio di infinite polemiche che non esito a definire sproporzionate. Sono stati pubblicati addirittura articoli accademici che calcolavano le percentuali degli errori. Il fatto è che, quando il libro è diventato un caso letterario e un bestseller internazionale, è successo un po’ quello che accade ai mondiali di calcio, quando si diventa tutti allenatori: improvvisamente sono diventati tutti esperti di traduzione!»

Ma c’erano realmente grosse sviste?

«Qualche svista c’è, è innegabile, ma la storia di successo del libro è anche una bellissima storia di amicizia e fiducia tra Han Kang e la sua traduttrice Deborah Smith. La riassumo in breve: Deborah Smith arriva in Corea fresca di laurea a Cambridge e, con un’invidiabile capacità di scouting, nel mare della narrativa coreana pesca proprio La vegetariana. Contatta l’autrice, ne conquista la fiducia, propone il titolo a editori inglesi, vende i diritti, lo traduce (non avendo mai tradotto nulla prima!), e porta Kang a vincere il Booker. Gli errori avrebbero potuto essere facilmente corretti con una normale revisione editoriale, ma in questo caso non c’è stata».

Perché?

«Il perché lo ha raccontato l’autrice: quando la Smith le manda il file, lei è sotto consegna con Atti Umani, e non riesce a dedicarci più di qualche ora. Lo stile le piace, rende bene, le dà l’okay. Kang se ne assume in qualche modo la co-responsabilità, e secondo me è molto bello. È importante sottolineare che la voce di Kang è passata, sia nella traduzione inglese che nella splendida versione italiana di Milena Zemira Ciccimarra, che ha potuto contare sull’aiuto attento dell’autrice per ogni suo dubbio».

Quindi, la voce di Han Kang è sempre rispettata?

«Certo. La voce di Han Kang passa integra, così come passano il ritmo, la poesia, il messaggio, e direi anche il sottile dolore che sottende a volte le sue pagine. In breve, tutto ciò che non è quantificabile in numeri e percentuali e che fa di una traduzione una buona traduzione. Tradurre è stato definito in tanti modi, tra questi “il sistema circolatorio delle letterature del mondo” mi piace molto. Farne parte è un grande privilegio e anche una grande responsabilità».

Lei ha avuto difficoltà nel tradurla?

«Ci sono vari tipi di difficoltà. Prima quelle insite nella lingua stessa: il coreano non distingue tra maschile e femminile, singolare e plurale. E non teme le ripetizioni, che in italiano invece sono un tabù letterario. Si aggiungono le difficoltà specifiche dei libri di Han Kang: da lettrice, sapevo fin dalle prima righe di avere tra le mani un classico del futuro (o un futuro classico), cioè un libro che si può leggere e rileggere senza annoiarsi, e anzi trovandovi sempre risposte diverse. Da traduttrice, la sfida è rendere questa qualità».

L’avversione di Han Kang per la violenza consiste nel denunciare i massacri di guerra. La sua è anche una condanna morale?

«Han Kang ha dedicato anni allo studio delle testimonianze del massacro di Jeju: un orrore insabbiato dai governi militari, e in parte rimosso dalla memoria collettiva. La mia sensazione da lettrice e traduttrice, è che il suo intento si riassuma in un passaggio di Non dico addio: “Quei bambini. Bambini morti nel nome di una volontà di sterminio. Mentre avanzavo, passo dopo passo, sforzandomi con tutte le mie energie di fendere il vento, sono stata colta da un pensiero improvviso: eccoli, sono loro. Avevo la sensazione che la mia pelle fosse trafitta da migliaia di aghi trasparenti, attraverso cui la vita si riversava in me, in una specie di trasfusione».

Questa specie di trasfusione, secondo lei, avviene anche nei lettori?

«Credo di sì, e la condanna morale, lo sdegno o qualunque altra reazione, ne sono la conseguenza. La scrittura di Han Kang nasce da un’urgenza di narrare, più che da uno scopo. Non vuole persuadere o commuovere il lettore: nei suoi libri non troverete mai i famosi “hook”. Per questo, forse, è ancora più intensa e dirompente».

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