Giorno del Ricordo: «Il dramma della fuga e il lungo silenzio»

L’INTERVISTA. Mariagrazia Deretti racconta la storia della madre. Minacciata dai miliziani di Tito, abbandonò tutto per venire a Bergamo.

Di fatto, solo da vent’anni è finita la lunga «congiura del silenzio». Sì, solo da vent’anni i massacri, le foibe e quell’enorme esodo forzato vengono ricordati in tutta Italia.

È grazie alla Legge 92 del 2004 che il nostro Paese, il 10 febbraio di ogni anno, celebra il «Giorno del Ricordo» per rinnovare la memoria di questa tragedia mitteleuropea durante la quale, in nome di una pulizia etnica, tra il 1943 e il 1947 migliaia di persone furono gettate nelle foibe, le cavità carsiche, o uccise dopo processi sommari dai partigiani di Tito. Non dimenticando poi le oltre trecentomila costrette a emigrare.

La scelta del 10 febbraio

Una data, quella del 10 febbraio, prescelta per un significato particolare: si tratta infatti del giorno in cui, nel 1947, fu firmato il trattato di Parigi che assegnava alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza territorio italiano dove per secoli italiani, sloveni e serbocroati avevano convissuto nel rispetto reciproco.

L’esodo, anche verso Bergamo

Com’è ormai noto, le vittime di questo orrendo capitolo di storia non erano solo militari ma anche civili, accusati di collaborazionismo con il regime o semplicemente di essere italiani. Oltre alle esecuzioni ci furono deportazioni di massa in campi di internamento, e poi quell’esodo che anche a Bergamo vide arrivare dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia 1283 persone. Così secondo i registri ufficiali.

Tra queste persone, una delle prime a giungere nella nostra città fu Giovanna Novak. Ne racconta la storia Mariagrazia Deretti, la figlia, classe 1948, nata e cresciuta a Bergamo, insegnante in pensione, che lunedì 10 febbraio alle 20,30 interverrà all’incontro «Il dramma delle foibe nei ricordi di una nonna», organizzato presso la Biblioteca «Don Milani» di Bonate Sopra, in piazza Vittorio Emanuele II.

Deretti, partiamo dall’inizio. Ci può raccontare chi era sua madre?

«Sono figlia di una profuga. Mia mamma, Giovanna Novak, a novembre 1943 era già a Bergamo. Aveva solo diciotto anni ma era stata costretta a fuggire per salvarsi. Poco dopo la raggiunse la nonna Francisca, nativa di un paesino, Dolnji Zemon (Zemon di Sotto). Dovettero abbandonare tutto per salvare la pelle e non finire nelle foibe».

Come mai sua madre dovette fuggire?

«Mia madre nacque nel settembre 1925, quindi nel 1943 stava per compiere 18 anni. In quel periodo si diventava maggiorenni a ventuno. Quindi, quali responsabilità politiche poteva avere una ragazza minorenne? Cosa poteva aver compiuto di così grave? Agli occhi dei partigiani titini, mia madre aveva tre colpe gravissime. Innanzitutto era figlia di un soldato italiano che non aveva potuto sposare mia nonna perché a quei tempi era in servizio e aveva bisogno del permesso dei superiori. Poi, avendo fatto l’avviamento commerciale, era stata assunta in Comune come dattilografa: lavorando lì, era serva dello Stato italiano. Infine, era fidanzata con un soldato italiano, poi finito nelle foibe e mai più ritrovato. Tre gravissime colpe. Inevitabile scappare…».

Ci spieghi la fuga…

«Con l’8 settembre 1943 la situazione era precipitata: i tedeschi avevano il controllo delle grandi città, ma nelle campagne i miliziani di Tito erano ovunque, così la nonna nascose la mia mamma in un convento. Le suore, però, erano troppo spaventate dalle visite notturne dei partigiani, che venivano di notte a picchiare al portone, gridando loro di “consegnare quella fascista”. Appena i tedeschi ripresero il controllo della situazione, dopo un paio di mesi, la nonna fece scappare la mamma. La caricò su un treno e la spedì a Bergamo».

Perché proprio Bergamo?

«Dopo l’8 settembre (data dell’armistizio ndr), una cugina della nonna, la zia Giuseppina, aveva seguito in provincia di Bergamo il fidanzato, un soldato italiano che tornava a casa perché l’esercito era allo sbando. In seguito i due si sposarono e aprirono un’officina, poi diventata una bella concessionaria d’auto, che esiste tuttora. La scelta fu legata a questo appoggio familiare».

Come fu l’accoglienza? Trovarono solidarietà o difficoltà a integrarsi?

«L’accoglienza fu buona, del resto mamma aveva già una parente inserita. La gente fuggita dall’Istria era tutta operosa. Mia madre aveva molte competenze e, in quel periodo, la condizione di esule l’avvantaggiò: fu assunta dal Comune di Bergamo dove fece l’impiegata per ventitré anni. Conobbe mio padre, anche lui un soldato tornato a casa dopo l’8 settembre, di professione insegnante. Si sposarono e nel 1948 sono nata io».

C’è qualche oggetto che ha conservato e le ricorda quel periodo?

«Certamente. Conservo gelosamente il certificato della Prefettura che riconosceva a mia mamma lo status di profuga. Anche alla nonna venne riconosciuto; la sua copia del certificato è andata perduta, ma nei registri conservati negli archivi della Prefettura c’è anche il suo nome. Un altro documento che custodisco è il diploma concesso a mia madre nel 1966 dal Comune di Bergamo per i suoi 23 anni di fedele e ininterrotto servizio».

Chi le ha trasmesso la memoria dell’esodo della sua famiglia?

«Mamma non ne voleva parlare, era troppo doloroso. È stata la nonna a raccontarmi la loro storia; io non sono andata all’asilo, stavo a casa con lei che era il centro del mio universo. Mi ha insegnato a pregare in sloveno e a recitare buffe filastrocche. E mi ha raccontato ciò che era accaduto. Lei era nata nel 1901 e quindi fino a 17 anni si era sentita devota suddita dell’Imperatore d’Austria. Mia nonna ha dovuto imparare prima a diventare italiana, e poi per restare italiana ha dovuto fuggire. Mia madre invece è cresciuta negli anni dell’italianizzazione forzata; usava la lingua slovena solo per litigare con la nonna…».

Crede che le nuove generazioni conoscano abbastanza questo buio capitolo di storia? Perché è importante studiarlo?

«Temo di no. Credo che gli insegnanti delle nuove generazioni non abbiano studiato bene questa parte di storia che ancora adesso è piuttosto sottotono rispetto alla tragedia della Shoah. Anche se ora, con il Giorno del Ricordo, qualcosa è cambiato. Io mi sono iscritta all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia proprio per offrire la mia testimonianza, anche a nome di tanti altri. La porto nelle associazioni, nelle scuole, nelle biblioteche. C’è chi dice che sono cose vecchie, che non ha senso tornarci sopra. Ma, come ha ricordato più volte il Presidente Mattarella, non bisogna avere paura della verità, mai... E che questi eventi siano una cosa vecchia, ormai dimenticata è clamorosamente smentito dal fatto che sabato mattina, a due giorni dalla celebrazione del Giorno del Ricordo, è stato vandalizzato il monumento alla Foiba di Basovizza, che dal 1992 è monumento nazionale».

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