«Donizetti sarà al centro del Festival: il doppio ruolo mi entusiasma molto»

L’INTERVISTA. Riccardo Frizza, neo direttore artistico parla del nuovo impegno: proseguiremo in continuità, ciò che ho in mente si vedrà nel 2026. Il settore educational va portato avanti, chi va a teatro da piccolo poi prosegue.

Da Bristol dove è impegnato (otto concerti in dieci giorni) con l’Hungarian Radio Symphony Orchestra della quale è principal conductor - Riccardo Frizza (Brescia, 1971) parla del sua nuovo incarico di direttore artistico della Fondazione Teatro Donizetti. Carica che si aggiunge a quella di direttore musicale, che svolge dal 2017.

Cosa possiamo aspettarci dalla sua direzione artistica?

«Non è un segreto, il festival Donizetti Opera 2025 è già stato preparato e programmato da Micheli e lo porteremo avanti in continuità. Qualcosa di quello che ho in mente si potrà vedere nel 2026: la programmazione in cui potrò dire mia sarà quella del 2026-2027».

Che tipo di attenzioni ci saranno per il grande genio bergamasco?

«La mia visione generale è che Donizetti deve essere al centro dl Festival: tutto gira attorno al compositore e alla sua musica. Voglio restare nell’ombra, perché tutto ruoti attorno alla sua figura, alle sue opere e alla sua musica. Si definisce “bel canto”, ossia centrata sulla vocalità e la voce. C’è ancora tanto lavoro musicale da fare, da provare e quindi metter in scena. Sulla carta ci si fa una visone, poi sulla scena si vede altro e solo sul palcoscenico te ne rendi conto».

Direttore musicale e direttore artistico, un doppio ruolo. Come pensa di conciliare una doppia carica così impegnativa?

«È un impegno che va rispettato e che affronto con molto entusiasmo: occorre dedicare tempo, avrò collaboratori che mi aiuteranno. Io voglio continuare a fare il direttore d’orchestra e cercherò di capire come intervenire come direttore. Non voglio inflazionare troppo la mia presenza sul podio. La direzione artistica richiede una visione globale, le produzioni siano seguite da vicino».

Cosa pensa della scelta dell’Orchestra Gli originali, una formazione «storicamente informata»?

«È un discorso da portar avanti, anche meglio. Quest’ anno c’è stato un grande scatto di qualità e occorre investire su questa orchestra. Non si è mai sottolineato che noi impieghiamo strumenti originali: un conto sono le copie conformi, un conto gli strumenti dell’epoca, è totalmente un altra cosa. Alcune imprecisioni vanno considerate quale parte normale degli aspetti musicali, anche nella volontà di far meglio. Oggi c’è un riscaldamento ad aria che non aiuta l’intonazione: bastano 2 o più gradi di differenza e gli strumenti ne risentono. Si comincia con intonazione a 432 hertz e si finisce a 440, e il corno non riesce a prendere l’armonico per l’intonazione giusta»

Come è nata la sua vocazione alla direzione d’orchestra?

«Oltre a pianoforte - con Sergio Marengoni - e poi direzione d’orchestra (alla Chigiana, con Gianluigi Gelmetti), ho studiato anche composizione, a Milano, con Elisabetta Brusa. La direzione d’orchestra è stata un caso: scrivevo pezzi miei a 14-15 anni, e a un certo punto volevo sentire come suonavano, con i ragazzi del conservatorio di Milano. In quel momento mi sono accorto che quello era ciò che volevo far nella vita. Nel 1983, a 18 anni, avevo visto Karajan e sono rimasto affascinato. Era giunto a Brescia, in vacanza durante le vacanze Pasqua. Da quel momento è scattato qualcosa di più profondo e quindi i miei studi sono andati in quella direzione: la mia prima opera diretta è stata le “Convenienze e convenienze teatrali” di Donizetti a Brescia, nel 1989».

Una ambizione, un sogno particolare?

«Nella vita sono sempre stato molto ambizioso, ma non ho sogni particolari. Non mi sono mai posto punti d’arrivo, ho sempre pensato a far bene il quotidiano, che apre le porte e assicura un cammino. Seguo le tappe del mio percorso, come questa della direzione artistica. Sono come dei paletti, non mi pongo mai dei punti di arrivo, mi aiuta far ciò che devo fare con l’entusiasmo del primo giorno, poi le cose procedono».

Cosa pensa del Donizetti raro, come i titoli del progetto #donizetti200?

«Credo che per qualche anno debba esser portato avanti per affrontare opere che non faremmo. Poi già nel 2030 ci sarà Anna Bolena (1830). In questo modo abbiamo la possibilità di fare delle scelte tra i titoli meno conosciuto».

Cosa pensa del settore educational?

«È una delle parti più forti del Festival, è un fiore all’occhiello che va sviluppato e portato avanti. Tutti quelli che sono andati a teatro da piccoli poi continuano da grandi. È un punto prioritario della direzione artistica».

E come vede il Festival «partecipato», ossia del coinvolgimento della città oltre le mura del teatro, dei rapporti con le altre istituzioni?

«Non vedo possibile un Festival Donizetti che non sia legato alla città. Avrò la mia cifra, ma non posso anticiparlo ora. Sono certamente aspetti fondamentali».

Quali soni i suoi riferimenti culturali, il retroterra?

«Da parte mia ho l’esempio di Alberto Zedda, e al suo fianco di musicologi come Philipp Gossett, col lavoro fatto al Rossini Festival e al Festival Verdi di Parma. Sono stato sia a Parma sia a Pesaro. Sono state guide importanti e illuminate che mi hanno ispirato molto. La mia direzione artistica vuole utilizzare bene le potenzialità delle edizioni critiche e utilizzarle nel migliore dei modi. Sapendo che è materiale su cui poi l’interprete deve intendere e proporre».

Nella vita ha spazio per altro, interessi, hobby?

«No, faccio questo sempre, ma è la cosa che mi piace fare, non mi pesa. Anzi, quando mi è capitato di essere a casa 4 o 5 giorni mi manca esser sul pezzo, sui libri, sulle partiture, e sulla letteratura che ruota attorno: se devo trovarmi un libro, leggo quelli di musicologia, come Julian Budden, Pierluigi Petrobelli, e altri autori di riferimento».

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