Don Spada e la Democrazia Cristiana nella complessa svolta degli anni ’60

LE MEMORIE. Lo storico direttore de «L’Eco di Bergamo» fu coinvolto nel dialogo fra le gerarchie ecclesiastiche e i vertici democristiani, impegnati nel processo di cambiamento che portò ai primi governi di centrosinistra.

Monsignor Andrea Spada, storico direttore de «L’Eco di Bergamo» morto 20 anni fa (primo dicembre 2004), ha svolto un certo ruolo nelle complesse relazioni fra le gerarchie ecclesiastiche e i vertici democristiani in vista della formazione dei primi governi di centrosinistra a inizio anni ’60. Lo ha potuto fare in almeno due occasioni per una serie di motivi: per il suo prestigio personale, perché il giornale era conosciuto e apprezzato negli ambienti romani e in quanto personalità molto vicina a Giovanni XXIII (il Papa era legatissimo al quotidiano, di cui era stato collaboratore) e al segretario particolare del Pontefice, monsignor Loris Capovilla. Non ultimo, la Bergamasca, con il Veneto, era considerata l’argenteria di famiglia della Dc. Prima, però, bisogna riassumere l’Italia di allora.

Il centrosinistra, con l’apertura graduale ai socialisti di Nenni nei governi Moro, segue il centrismo di De Gasperi e segna la società. La fase tumultuosa giunge più tardi. A inizio decennio il miracolo economico stava declinando e, per dirla con il sociologo cattolico Achille Ardigò, era cambiata anche la mappa sociologica dell’elettorato democristiano, tra forza operaia moderna e ceti medi urbani. I disordini del luglio ’60 a Genova e in altre città contro il governo Tambroni, che aveva ottenuto la fiducia con i voti anche del Msi, avevano mostrato la necessità di allargare la base democratica delle istituzioni. Il clima internazionale, dopo la crisi dei missili a Cuba, volgeva verso la distensione con la breve presidenza Kennedy.

Il magistero del Papa bergamasco, fra il Concilio e le encicliche «Mater et Magistra» e «Pacem in Terris», oltre che il cambio al vertice dell’Azione cattolica, suscita grandi speranze e attese. Roncalli, nel celebre discorso «del Tevere più largo» durante la visita ufficiale del premier Fanfani in Vaticano nel ’61, scolpisce il principio fondamentale della separazione tra Stato italiano e Chiesa: «La singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato italiano suppone una distinzione e un tale riserbo di rapporti, fatto di garbo e di rispetto». Quindi il centrosinistra si costruisce sul terreno della cultura politica prima ancora che come formula parlamentare e di governo.

Fondamenti ideologici

La conferma viene dagli storici convegni di studio di San Pellegrino del ’61-’62-’63 che hanno costituito il laboratorio di idee del centrosinistra chiamando a raccolta lo stato maggiore della Dc e gli intellettuali d’area. San Pellegrino è la terra del senatore e ministro Giovanni Battista Scaglia, vice di Moro alla segreteria nazionale. Le relazioni del ’61 costituiscono la parte più importante: i fondamenti ideologici del partito. Il messaggio di Moro è esplicito: il fatto che ci siano punti di contatto sul terreno della vita democratica «sollecita la Dc al dialogo senza alcuna riserva con le forze democratiche anche altrimenti ispirate, rendendo possibile, pur con la nostra presenza caratterizzata alla quale non possiamo rinunziare, il più utile e costruttivo concorso di partiti diversi nella vita politica del nostro Paese». Non per dividere, «ma per unire senza confusione e senza prepotenza».

Il messaggio di Moro è esplicito: il fatto che ci siano punti di contatto sul terreno della vita democratica «sollecita la Dc al dialogo senza alcuna riserva con le forze democratiche anche altrimenti ispirate, rendendo possibile, pur con la nostra presenza caratterizzata alla quale non possiamo rinunziare, il più utile e costruttivo concorso di partiti diversi nella vita politica del nostro Paese». Non per dividere, «ma per unire senza confusione e senza prepotenza»

A San Pellegrino il consenso cattolico si connette a un disegno storico. In questo quadro si sviluppa, dal Congresso Dc del ’59 a Firenze a quello del ’62 a Napoli, la «politica ecclesiastica» dello statista pugliese che configura il centrosinistra non in termini ideologici ma come questione rilevante per la crescita civile del Paese: «L’apertura ai socialisti non è espressione di una caparbia volontà di collegare marxismo e cristianesimo o marxismo e democrazia. Essa nasce dalla constatazione delle forze reali motrici della nostra storia e dalla necessità di convogliarle in modo che servano la democrazia». Moro persegue questo delicato obiettivo, che condurrà a nuovi rapporti fra religione e politica in un contesto così originale come quello italiano, con la sua proverbiale prudenza. Da un lato deve portare con sé tutto il partito, cosa non scontata, dall’altro deve dialogare con gli uomini di Chiesa, dove le posizioni sono articolate e anche distanti: opposizioni di varia natura come quella espressa dal cardinal Siri, presidente della Cei, qualche vicinanza, «vigile attesa», silenzioso riserbo, comunque massima cautela. Dispiegando la sua «politica ecclesiastica» per confrontarsi con le gerarchie sul terreno dell’ispirazione religiosa del partito, il leader Dc apre un canale diretto con Papa Roncalli e con i suoi più stretti collaboratori, come monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto alla Segreteria di Stato.

Leggi anche

La consultazione

Qui entrano in gioco don Spada e Scaglia. Forse sollecitato dal vicentino Rumor, lo statista pugliese indirizza ai vescovi del Veneto (non si sa se la missiva sia stata effettivamente spedita) una lettera per motivare la scelta della Dc. Non solo: nei primi mesi del ’62 interloquisce con buona parte dell’episcopato italiano. I vescovi consultati sono stati 254 e hanno risposto in 171: il 60% dimostra di aver compreso lo stato di necessità della Dc, con la Lombardia quasi tutta schierata prudentemente a favore, mentre la Puglia, terra di Moro, è critica con poche eccezioni. Il punto di frizione si presenta nel ’61 con le Giunte «difficili», cioè con i socialisti, appunto «per necessità»: Venezia, Milano, Firenze, Genova. Bergamo arriverà nel ’64 con la Giunta di Fiorenzo Clauser, l’esito del ribaltone del Congresso Dc dove si afferma la nuova maggioranza moro-dorotea di Filippo Maria Pandolfi. Moro a più riprese difende le sperimentazioni locali replicando alle preoccupazioni della Cei e cercando una sponda salda e concreta oltre Tevere: fase ricostruita negli anni scorsi, in modo dettagliato e attingendo a più fonti, dallo storico Michele Marchi con due articoli sulla rivista «Ricerche di storia politica» (numero 2/2006, edita dal Mulino), dei quali siamo debitori.

Il 27 gennaio ’61 Moro ottiene l’incontro richiesto con monsignor Spada, che in quel periodo era anche presidente della Conferenza dei direttori dei quotidiani cattolici italiani. Dalle parole che Spada riferisce a Capovilla, Moro e il suo vice Scaglia hanno un atteggiamento amareggiato ma calmo. Il direttore dell’«Osservatore Romano», Raimondo Manzini, appare invece turbato verso una certa stampa cattolica e per «l’avanzare di un’Italia cattolica confindustriale».

Il 27 gennaio ’61 Moro ottiene l’incontro richiesto con monsignor Spada, che in quel periodo era anche presidente della Conferenza dei direttori dei quotidiani cattolici italiani. Dalle parole che Spada riferisce a Capovilla, Moro e il suo vice Scaglia hanno un atteggiamento amareggiato ma calmo. Il direttore dell’«Osservatore Romano», Raimondo Manzini, appare invece turbato verso una certa stampa cattolica e per «l’avanzare di un’Italia cattolica confindustriale». Inoltre secondo Manzini – stando alle affermazioni che Spada riporta – « (…) è ora che decidiamo se vogliamo sostenere questo povero partito cattolico, dandogli un minimo di credito, almeno nelle intenzioni, o se vogliamo buttarlo a mare, continuando a dargli addosso da tutte le parti».

Criterio e prudenza

La riflessione di Spada rivolto a Capovilla prosegue in questo modo: «Ho consigliato Moro e Scaglia di esporre serenamente e obiettivamente la loro linea di condotta e le sarà giunta: brava e seria gente va ascoltata. Agisce con criterio e prudenza. Non può dire tutto al pubblico ma deve dirlo a Chi rappresenta per loro il giudizio della coscienza». «L’importanza del testo di Spada – osserva lo storico Marchi – è confermata da una nota riservata del giorno successivo redatta dal sostituto Dell’Acqua nella quale si comprende innanzitutto che la lettera diretta a Capovilla non è stata distrutta dopo la lettura (come richiesto esplicitamente dallo stesso direttore de “L’Eco di Bergamo”) e al contrario è finita tra le carte dello stesso Dell’Acqua. In secondo luogo dalle considerazioni di quest’ultimo si nota un’assoluta consonanza di vedute sui rischi che comportano prese di posizioni pubbliche avventate nei confronti della Dc, ma allo stesso tempo si manifesta il timore che tali prese di posizione troppo esplicite possano rendere pubblici i contrasti che covano all’interno delle gerarchie ecclesiastiche».

Ecco quel che afferma monsignor Dell’Acqua: «Quanto alle considerazioni di Mons. Spada non posso che condividerle nella loro sostanza. Sono tali da far pensare seriamente. Soprattutto viene da chiedersi se persone come Moro, Scaglia, Manzini meritino minor fiducia di persone che scrivono sul “Borghese” (ndr: settimanale di destra) cose deplorevoli disdicevoli non dico a dei cattolici ma a persone oneste, perché non si può calunniare impunemente e costantemente, inventando cose e fatti e colpendo sistematicamente personalità ecclesiastiche, il cui lavoro per la Chiesa è caratterizzato da generosità, spirito di sacrificio, devozione al Papa. E per fortuna Moro e compagni non sanno da dove provengono talune informazioni per certi articoli del “Borghese” (…)».

L’apertura ai socialisti

Il secondo episodio che coinvolge Spada è il Congresso Dc di Napoli del ’62 che sancisce l’apertura ai socialisti. Il direttore de «L’Eco», rientrando a Bergamo, scrive subito a Capovilla per tranquillizzarlo. Spiega che l’unità del partito ha retto, che la linea Fanfani-Moro è quella vincente, e che la Dc esce da questo appuntamento potendo contare su un’ottima classe dirigente, ricca di esperienza e anche di giovani di belle speranze. Il giudizio è comunque ambivalente, perché alla nota positiva ne aggiunge altre preoccupanti: « (…) l’assenza in molti oratori di temi religiosi e, in tutti, una schiacciante prevalenza delle valutazioni politiche, economiche e sociali. (…) Moro e Fanfani sono stati i due che hanno più sottolineato (e riscosso grandi applausi) l’atteggiamento sereno del Santo Padre. Ma per il resto, da parte specialmente dei giovani, si è scantonato dal toccare temi religiosi, per evitare, credo, polemiche. Il risultato non è però confortante: il nostro mondo politico finirà di considerarsi estraneo, di andare per conto proprio, senza preoccuparsi né della fiducia, né della sfiducia, pensando di essere poco stimato e creduto. Lei capisce cosa voglio dirle. C’era l’aria di dire “del nostro mondo meglio non parlarne”; e questo non è piacevole».

Lo storico Marchi, soffermandosi sull’autonomia inseguita dallo scudocrociato all’interno della «nazione cattolica», conclude così: «Il richiamo di Spada alla supposta reticenza nell’affrontare tematiche religiose apre la strada a quello che si presenta come il secondo elemento “rivoluzionario” scaturito dal Congresso Dc di Napoli. Se Moro ha mostrato che il fulcro della situazione non era solamente l’ingresso dei socialisti nell’area di governo, ma anche l’autonomizzazione della stessa (e quindi della Dc) dal controllo monopolistico delle gerarchie, queste scoprono improvvisamente che al processo di maturazione del partito dei cattolici (fortemente desiderato dal fronte progressista delle gerarchie) è inscindibilmente connaturato il suo progressivo abbandono del riferimento alla tradizione religiosa».

© RIPRODUZIONE RISERVATA