Daria Bignardi: «Porto in carcere chi non c’è mai stato senza intristire»

L’INTERVISTA . Questa sera la scrittrice Daria Bignardi presenta al Daste il suo libro «Ogni prigione è un’isola». Viaggio nel mondo carcerario tra reportage e memoir.

Daria Bignardi presenterà «Ogni prigione è un’isola», il suo ultimo libro edito da Mondadori, martedì sera alle 21 a Daste, l’ex centrale termoelettrica in via Daste e Spalenga 13/15 a Bergamo (ingresso gratuito su prenotazione sul sito www.dastebergamo.com).

L’incontro si inserisce nell’interessante programma della rassegna Unlock. Evasioni artistiche. Per tutte le info clicca qui.

La nuova fatica della scrittrice e conduttrice tv non è un saggio giornalistico, ma un viaggio nel mondo carcerario in cui si mescolano liberamente r eportage e memoir. Le pagine sono la summa del dialogo con le tante persone da lei conosciute in 30 anni di visite nelle prigioni italiane. Bignardi si confronta con detenuti, agenti, giudici e direttori d’istituto. Dati alla mano, il carcere così com’è strutturato serve a poco ma nel libro ci sono esempi virtuosi (come quello di Bollate) in cui la recidiva crolla percentualmente dal 70 al 20 per cento, ovvero gli istituti in cui i detenuti possono accedere alla formazione per un lavoro qualificato. «Ogni prigione è un’isola» è anche una riflessione sull’isolamento e quindi una mappatura dell’esistenza di prigioni interiori oltre che reali.

Infine il testo pone una inevitabile riflessione sul Male e dà voce a diversi pareri in merito. Quel che appare chiaro è come la relazione tra creature animate (fosse anche tra un uomo e una lucertola) sia fondamentale alla sopravvivenza. Riguardo al potere che abbiamo invece tra esseri umani di alleviare la sofferenza, è bene ricordare cosa dice a un certo punto un direttore ai suoi agenti: «Una parola gentile in più può salvare una vita e tu magari non lo saprai mai»; per un gioco di specchi, un consiglio validissimo anche fuori.

Abbiamo fatto alcune domande all’autrice.

Ho trovato che il suo libro, oltre a dare una panoramica dell’ambiente carcerario degli ultimi tre decenni, promuova in modo gentile una sorta di allenamento all’empatia e alla coscienza civile. Lei a che scopo lo ha scritto?

«Volevo portare in carcere chi non ci è mai stato e magari ne prova fastidio o paura. Raccontare gli incontri che ho fatto in questi anni senza annoiare o intristire i lettori».

Il racconto carcerario procede in parallelo alla descrizione di diversi suoi periodi di isolamento isolano in cui lei sperimenta, almeno in parte, quanto vive chi è sepolto in cella: dalla solitudine al silenzio, passando per i disagi fisici. Da dove viene questa necessità emotiva?

«Le isole mi hanno sempre attratta; da molto giovane ci ho anche vissuto per lunghi periodi. A un certo punto, quando ormai andavo in carcere da un po’, ho capito che isole e carceri avevano punti in comune. E ho scoperto che esiste la claustrofilia, che è il contrario della claustrofobia. Spesso la claustrofilia, l’attrazione per i luoghi chiusi e appartati, ha a che fare con un fortissimo legame con una figura genitoriale».

«Il carcere ci riguarda tutti, almeno come terribile possibilità», si legge ad un certo punto. Lei dedica infatti un capitolo ai tanti che si ritrovano detenuti da innocenti. Eppure tutto questo fa parte di una rimozione collettiva. Secondo lei perché?

«Beh, è normale che il carcere faccia paura e che non si abbia voglia di pensarci. È un luogo punitivo, doloroso, e nei film ci stanno solo i brutti e cattivi».

Lei descrive la prigione come una famiglia allargata («fratello è il nome prediletto tra i detenuti»), altrove parla di «detenzione che serve solo come vendetta sociale». In alcuni momenti sembra di scorgere più umanità «dietro il cancello» che non nel mondo dei liberi. È così?

«Sicuramente l’umanità è più evidente nei posti dove sono ristrette molte persone. Dove non ci sono sovrastrutture e si è obbligati a mostrarsi per quel che si è».

Nel suo libro gli istituti penitenziari di oggi non sono quelli di ieri. Laddove prima potevano finire avventurieri, teste calde e ribelli idealisti, oggi invece troviamo soprattutto ogni categoria di emarginati. Se già nel presente siamo di fronte a una sovraffollata «discarica sociale», cosa aspettarci in futuro?

«Mi verrebbe da dire che così non si può andare avanti, ma lo si dice da sempre, lo scriveva anche Calamandrei. Quindi in realtà mi aspetto che vada persino peggio, anche se mi dispiace dirlo e non poter fare discorsi speranzosi».

Lei parla di sensi di colpa che in carcere hanno perfino gli innocenti, dello strazio delle madri separate dai bambini e dell’eterno presente in cui resta imprigionata la coscienza di alcuni «carnefici». Cosa ha capito di come si sopravvive alla sofferenza?

«Credo abbia a che fare con la vita interiore e le risorse che abbiamo o non abbiamo, ma anche col caso e le relazioni che abbiamo col prossimo, con la nostra capacità di reagire e di chiedere aiuto».

La bellezza, seppure in piccoli scorci, arriva salvifica; penso a sua figlia che gattona in visita al nonno in quello spazio comune che è il parlatorio. Quali altri momenti di sollievo ci sono in un contesto generalmente così tetro e disumano?

«Cantare a squarciagola “Io vagabondo” alla festa di Natale, riuscire ad avere un permesso, soprattutto poter lavorare».

Il sistema carcerario ha problemi sempre più cronicizzati: «incuria, disperazione, disorganizzazione, violenza». La paralisi dell’intervento politico a riguardo è anch’essa strutturale secondo lei?

«Purtroppo sì. Il carcere non porta voti. Nessun partito verrà votato dandosi da fare sul carcere nonostante sia provato che negli ultimi 30 anni i crimini siano diminuiti in modo inversamente proporzionale al numero delle persone detenute. Mentre “inasprire le pene” e tutti gli slogan sul “buttare la chiave” lavorano sul nostro comprensibile ma irrazionale bisogno di sicurezza, che non saranno le carceri o la durezza delle pene a risolvere».

La rassegna Unlock. Evasioni artistiche.

«Unlock», la rassegna socio-culturale organizzata a Daste sul tema della reclusione e della condizione detentiva. Diversi eventi, con un obiettivo: raccontare le persone recluse oltre il loro reato, cambiando la percezione che si ha del carcere all’esterno. Domani alle 17 si terrà il laboratorio «Fragili legami» condotto dai detenuti della Casa di Reclusione di Verziano con alcuni ospiti del centro diurno psichiatrico di Brescia e gli studenti del corso di teatro sociale dell’Università Cattolica del Sacro cuore di Brescia. Alle 20,30 «Errare Humanum Est», una rappresentazione teatrale sul disagio, la devianza minorile, la giustizia, condivisa da ragazzi (detenuti e non) per mostrare che cambiamento e crescita personali sono possibili. Il 6 giugno alle 17 si terrà la tavola rotonda «Arti performative e pene detentive» e in serata allo Schermo bianco il film «107 mothers». Domani e giovedì dalle 16 alle 20 si potrà sperimentare l’esperienza immersiva «Reeducated», che porta gli spettatori all’interno di uno dei campi di rieducazione dello Xinjiang, in Cina.

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