Danilo Rea: «Io e Fiorella sul palco musica e canto per emozionare»

L’INTERVISTA. Il pianista e Mannoia sabato 23 dicembre al Donizetti con «Luce»: «Lei è un’interprete incredibile, dialoghiamo e improvvisiamo. Davanti al pubblico metteremo le nostre anime».

Piano e voce, a lume di candela: suggestione garantita. Il jazz, l’improvvisazione, la canzone d’autore italiana: Fiorella Mannoia e Danilo Rea in concerto sabato al Teatro Donizetti di Bergamo (inizio ore 21; biglietti disponibili). È l’ultima tappa del tour, poi Fiorella dovrà pensare a Sanremo. Torna all’Ariston, in gara. Preferisce non parlarne, per ora. Ci pensa Rea a inquadrare la meravigliosa avventura di «Luce», album e tournée.

«L’idea di “Luce” è venuta a Carlo Di Francesco e a me è sembrata molto appropriata per un duo», spiega il pianista romano. «Togliere tutte le sovrastrutture dei concerti pop, tornare a un’atmosfera più calda, rispecchia perfettamente l’idea del duo. Il piano solo è un’altra cosa: sei tu davanti al pubblico, c’è la tua anima, sei a nudo innanzi alla gente. Il dialogo a due propone una situazione simile. “Luce” mette a fuoco le cose in modo intimo. Per sottrazione. Il risultato è stato interessante, sia all’aperto, nell’estate, sia ora nei teatri. Le candele sulla scena danno tantissimo. Mi dispiacerà abbandonarle in futuro, quando tornerò al jazz».

A proposito, Lei ha lavorato con scienziati dell’improvvisazione come Lee Konitz, ha suonato con l’anima dolente di Chet Baker e tanti altri primi attori della musica jazz. Com’è per un jazzista approcciare la canzone?

«Per me è molto naturale, non lo è per altri jazzisti. Sono cresciuto con le canzoni e con la musica classica, ho fatto il conservatorio. Credo che in genere il jazzista abbia delle riserve sulla semplicità formale della canzone. Tant’è che l’errore che spesso fa, accostando una canzone, è giusto quello di complicarla, con l’idea di migliorarla, cambiando le armonie, rendendole più complesse. Mozart ci insegna che la semplicità è fondamentale. L’approccio che ho alle canzoni è semplice: cerco di improvvisare rapportandomi con la melodia, senza mai superarla, tenendola sempre in devota considerazione. La rispetto e creo un contorno armonico nel quale la voce possa esprimersi. È importante che quello che suono sia funzionale alla vocalità. Fiorella come interprete è incredibile. È come se fosse un attore che dà un tono alle parole. Ha una capacità di emozionare che va rispettata. Ci siamo trovati bene perché abbiamo dialogato sul palco. Durante il concerto è attenta, certe volte mi guarda, si tocca l’orecchio, mi fa capire che ascolta. La musica è sempre in movimento. In qualche modo improvvisiamo tutti e due».

Ha suonato a lungo con Gino Paoli, cosa le piace di Fiorella?

«Siamo molto vicini, amici, ci conosciamo da trent’anni. Quando abbiamo scelto il repertorio ci siamo trovati su tutto, perché siamo coetanei, siamo cresciuti con quella musica, quei cantautori, quei testi, certi messaggi. Ho accompagnato per dieci anni anche Paoli, ma lì c’era una differenza generazionale. Sul palco abbiamo creato cose belle, lui però mi ha spiegato i tratti di una generazione, la sua. Anche quando abbiamo fatto il disco di canzoni francesi lui conosceva personalmente tanti chansonnier. I mondi sono diversi. Io e Fiorella siamo decisamente più vicini. Essere della stessa generazione, amare certi cantautori ci ha aiutato decisamente. Fiorella ha fatto tour con Pino Daniele, De Gregori, Ron, io ho suonato con tutti loro, con Dalla, tanti cantautori italiani. Anche per questo siamo molto legati. Resta il fatto che Gino e Fiorella sono due grandi interpreti. E sono rari gli interpreti in Italia; gli altri cantano».

C’è una voce, un interprete che le piacerebbe affiancare in un’altra avventura nel cuore della canzone?

«Avrei sempre voluto suonare con Frank Sinatra, avere la chance di accompagnare la sua voce ineguagliabile. Però mi farebbe piacere, andando oltre confine, suonare con Sting e Peter Gabriel. Li ho conosciuti tutti e due. Sting l’ho incontrato vent’anni fa in televisione. È un musicista e un cantante pazzesco. Peter Gabriel l’ho conosciuto quando andai a registrare nei suoi studi l’album “Oltre” di Baglioni. Era la prima volta che il musicista inglese affittava il suo studio a uno straniero».

Tornerà presto al jazz. Il piano solo è la dimensione che preferisce?

«No, non proprio. Anche se tutti mi chiamano per esibirmi in solo. Per carità, mi piace, sto bene da solo in scena, però il trio mi piace moltissimo, anche il duo. Mi vogliono spesso in solo perché lo show che faccio è comunque coinvolgente, emotivamente. Il trio con piano, contrabbasso, batteria, è una formazione in cui sento di esprimermi bene, mi diverte molto. È bello lo scambio, l’improvvisazione condivisa con gli altri».

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