«Belcanto, Donizetti il più grande di tutti: capiva la psicologia»

L’INTERVISTA. Parla Iván López-Reynoso, il giovane direttore d’orchestra del «Don Pasquale» al Festival Do.

Una carriera «di corsa», direbbe Donizetti, quella del messicano Iván López-Reynoso. Il più giovane direttore d’orchestra ad apparire al Teatro Bellas Artes, in patria, ha fatto il suo debutto operistico nel 2010, a 20 anni, con Le Nozze di Figaro, selezionato poi per l’Accademia Rossini Opera Festival 2014. Classe 1990, ha studiato violino, pianoforte, direzione di coro e si è diplomato summa cum laude in direzione d’orchestra, oltre che essere controtenore.

La storia di Iván López-Reynoso

Brillantissima bacchetta nel Don Pasquale in edizione critica del Festival Do (in replica sabato alle 20), gli abbiamo chiesto come è nata la sua vocazione. «Di solito uno sceglie la direzione dopo aver studiato uno strumento musicale – spiega –. Io invece ho studiato strumenti perché fin da giovanissimo volevo dirigere. Avevo 3-4 anni, forse anche meno, me lo hanno raccontato i miei, quando ho visto il film Fantasia di Disney. Rimasi folgorato dalla Toccata di Bach-Stokowski, col grande direttore che sale le scale: era così affascinante questo mondo di colori, immagini e suoni che iniziai a imitare i gesti di Stokowski. Nessuno tra noi, nemmeno i nonni erano musicisti. Per questo ho cominciato a studiare nel liceo musicale della mia città, Guanajuato.Ringrazio la mia famiglia che ha sempre sostenuto la mia passione».

Dello studio in Italia con Alberto Zedda che ricordo ha?

«È stato il mio grande maestro per l’opera italiana, ho imparato molto da lui, di Rossini e del mondo del belcanto. Era sempre molto generoso con noi giovani. Ho seguito quasi tutte le prove, ho fatto due viaggi appositi, nel 2015 e nel 2016. Era generosissimo ma anche molto esigente come insegnante e musicista, soprattutto con quelli che trovava bravi. Amava tantissimo il suo lavoro, conosceva bene i limiti e quello che potevi dare. Non si accontentava, voleva il massimo. Ma quando diceva “hai fatto bene, sei stato bravo”, voleva dire che avevi raggiunto un grande risultato. Era un grande uomo».

Cosa pensa, da direttore, di Donizetti, della sua cifra musicale?

«Stiamo parlando di un autore che ha rivoluzionato la scrittura vocale ma anche teatrale e orchestrale. Ha iniziato dall’eredità di Rossini ma l’ha sviluppata e rivoluzionata. Era una grande uomo di teatro, come Rossini e Mozart (e poi Verdi e Puccini). Si parla molto di Traviata, ma dieci anni prima nel Don Pasquale Donizetti offre idee uguali, la musica dei suoi tempi: tanti valzer per raccontar una storia. Parigi allora pullulava di valzer come sarà in Traviata. Si parla molto di Verdi e delle sue ricerche di cose nuove e moderne. Ma anche Donizetti è uomo di teatro, è il passo logico dopo Rossini, la strada prosegue con Verdi. Nel belcanto puro è il più grande di tutti, aveva capito come scrivere teatro in musica. Non solo scrivere bella musica, ma una vocalità che cerca sempre una drammaturgia, non solo bellezza musicale. Questo è ciò che affascina in Elisir, Fille du régiment, tutti capolavori. È incredibile come un compositore che ha scritto commedie tali, scriveva così bene anche la tragedia. Questo perché Gaetano capisce il teatro, la psicologia dei personaggi: per questo ci sono tanto capolavori comici che drammatici: è una personalità musicale al servizio del teatro. Rosmonda di Inghilterra è un capolavoro di bellezza profonda, Dom Sébastien, l’ultima opera, è rivoluzionaria, molto avanti al suo tempo. Donizetti non era solo contemporaneo, guardava sempre al futuro. È sempre una sorpresa riscoprirlo».

Com’è l’edizione critica di «Don Pasquale»?

«È un lavoro veramente magnifico che fa il Festiva Do, riscoprire e tornare alle idee originali degli autori, anche dei capolavori assoluti come Don Pasquale 1843. Tutti lo conosciamo. Ma si trovano cose molto interessanti e nuove, che abbiamo eseguito per la prima esecuzione critica moderna. La Sinfonia col corno (e non col violoncello) è un fatto, Donizetti amava il corno, lo si vede anche nella Fille du régiment. Ebbe un problema col corno alla prima recita, e allora scrisse la versione con violoncello. Ma la versione precedente col corno era senza dubbio una novità. Poi ci sono piccole differenze, la più interessante modifica è nel duetto Don Pasquale-Malatesta, con una versione più lunga. Con questo lavoro filologico tali differenze lo rendono ancora più vivo».

Come si è trovato a Bergamo?

«Sono qui per la prima volta. Non trovo parole per dire l’emozione e la sorpresa. È una città incredibile, si respirano cultura, musica, arte. A Bergamo ho visitato la casa natale, la basilica di Santa Maria Maggiore, affascinanti e bellissime: il festival è già un punto di riferimento a livello internazionale, Francesco Micheli ha fatto un lavoro eccellente, con produzioni di alto livello. Sono innamorato di Bergamo, sono felice d’essere qui e non nascondo che avrei voglia di tornare».

Cosa si prefigge quando lavora a un’opera?

«Varie cose, la più importante è questa idea, che è quasi un’ossessione: creare i colori, le espressioni, i significati che Donizetti e gli altri compositori volevano creare e sentire, anche se con gli strumenti di oggi. Un lavoro difficile e molto delicato. Coi registi ragiono su quale sia quel messaggio oggi, come possiamo raccontare quella storia, in un mondo, il nostro, dove la fantasia sembra una cosa secondaria, non importante. Credo che l’opera, a parte il cinema, sia lo spettacolo per eccellenza: ha musica, teatro, costumi, scenografia, luci, video, ha tutto, è uno spettacolo che non ha limiti».

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