Baccini: con «archi e frecce» riporto le canzoni a trovare l’essenziale

L’INTERVISTA. Il cantautore Francesco Baccini il 24 ottobre al Cineteatro Gavazzeni di Seriate. Martedì 15 ottobre diretta Facebook. «Via i dettagli ridondanti».

Messa in stand by la «fase cinema», Francesco Baccini è tornato alla discografia con «Archi e frecce»: album che mette a braccetto classica e canzone d’autore. Musicista eclettico, con propensione all’ironia, ai temi sociali, alle colonne sonore, da camallo al porto di Genova è diventato cantautore di ventura. Trentacinque anni di attività, due Targhe Tenco, almeno una dozzina di album a suo nome, ha esordito con «Cartoons» lasciando subito il segno. Da allora la sua carriera è andata avanti attraverso fasi creative anche molto diverse tra loro, alla luce di una visione del tutto personale. Ora torna a esibirsi, con un quartetto d’archi al femminile, o in compagnia del chitarrista arrangiatore Michele Cusato. Sarà con lui il 24 ottobre al Cineteatro «Gavazzeni» di Seriate (inizio ore 21; biglietti disponibili) per un concerto legato alle nuove canzoni e a quelle che hanno segnato il suo cammino artistico. Lo stesso Baccini ne parlerà in una diretta sul suo profilo Facebook domani sera.

L’ultima volta che l’avevamo sentito si stava occupando più di cinema che di canzoni, ci aveva detto d’essersi stancato della discografia. Che è successo, ci ha ripensato?

«Il progetto del nuovo disco è nato da un live, così come “Baccini canta Tenco” era nato dai concerti. Con le Alter Echo mi sono divertito a mettere alle mie canzoni un vestito diverso: senza ritmica, con strumenti acustici, archi, piano, chitarra. Con la ritmica ho sempre avuto un rapporto conflittuale. In “Archi e frecce” non ho voluto basso e batteria».

E le canzoni come hanno reagito a questo trattamento?

«Secondo me benissimo. Le mie canzoni nascono quasi tutte al pianoforte e dunque si prestano a una strumentazione minima. Faccio musica d’ascolto. Il cantautore non fa musica per ballare. Dalla metà degli anni Ottanta le radio hanno imposto l’uso spiccato delle ritmiche, perché così riuscivano ad attaccare un pezzo all’altro. Nei dischi dei cantautori storici a volte la ritmica non c’era. In una canzone si racconta una storia, un modo di essere, qualcosa che può avere a che fare con la fantasia. Certe volte il basso e la batteria banalizzano la narrazione. Se “Mi sono innamorato di te” la fai con un piano è emozionante, se ci metti sotto una produzione con la ritmica diventa un’altra cosa. Per “Archi e frecce” mi ha ispirato Lucio Dalla: l’ultima tournée l’aveva affrontata con un quartetto d’archi. Le sue canzoni suonate con gli archi e il pianoforte, il clarinetto, erano molto più emozionanti».

Sono passati tanti anni dall’esordio, con tanto di targa Tenco, si guarda mai alle spalle? Come vede la situazione?

«Vedo una discesa continua. Ho vissuto un’adolescenza dove la curva andava al contrario, dagli anni Ottanta c’è stata un’inversione a U. Ho scritto un libro nel 1993 che s’intitola “Nudo” dove già spiegavo le cose: la quaglia era già andata. Mi hanno dato del rompiscatole. C’erano tutti gli elementi per capire dove si sarebbe andati a parare, con le radio, la musica. Se ascoltiamo le canzoni di Tenco degli anni Sessanta ci rendiamo conto di come parlava del nostro mondo, del consumismo, di quello che sarebbe successo scivolando verso gli eccessi della società. Dai pochi elementi aveva capito dove ci avrebbero portato certe anomalie».

Il suo documentario su Tenco che fine ha fatto?

«È pronto, doveva passare su Prime, ma la famiglia ha bloccato tutto. La cosa, a dire il vero, mi ha lasciato basito. È la prima volta che succede. Fai un docufilm su un artista tessendone le lodi e gli eredi si mettono di traverso».

E le colonne sonore come vanno? Aveva in programma di lavorare a un film western se non sbaglio.

«Se n’era parlato in effetti, ora sto lavorando alla musica di un film che verrà girato a Genova da un regista americano famoso di cui non posso ancora fare il nome. Maddalena Ischiale sta scrivendo la sceneggiatura tratta da un libro che parla di un femminicidio. Più che un thriller è un genere crime. Scrivo la colonna sonora e mi diverto a fare l’attore. Un paio d’anni fa ho impersonato in un film l’autore della musica dell’inno di Mameli, ho fatto la parte di Michele Novaro. L’unico caso in cui è diventato più famoso il librettista del compositore».

A proposito di Genova, se dovesse scrivere una canzone sulla sua città, alla luce dei tempi, che umore avrebbe?

«Sarebbe un blues. Genova è una città difficile, tutta un saliscendi. I tempi sono quelli che sono, ma noi genovesi siamo abituati al peggio. Non ci spaventa niente. Ci sono alluvioni tutti gli anni, e i terremoti politici non mancano. Io però non ci vivo più, sono tanti anni che sto altrove. Vivo in Lombardia. Come diceva Fabrizio (ndr.: De André) “siamo genovesi da esportazione, come Colombo”. I genovesi si dividono in due categorie: quelli che non se ne andranno mai da Genova, tipo mia sorella, e quelli che se ne vanno, non ci tornano più a vivere, ma si portano la città nel cuore e vivono di nostalgia. La canzone genovese più famosa, “Se ghe pensu”, è la storia di un emigrato in Argentina che pensa alla città senza tornarci. Genova è un punto di riferimento. Vai in giro per il mondo e ti senti di appartenerle. Io comunque sono più vicino a Bergamo che a Genova. Vivo sull’Adda, versante Lecco. Abito a Imbersago, dove c’è il traghetto. Per venire lì attraverso il fiume. Il mio aeroporto di riferimento è Orio al Serio. Ho vissuto anche in città, almeno un paio d’anni in una casa vicino all’Accademia Carrara; e posso dire che Bergamo è una città piena di fascino».

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