Alessandro Haber: «In tutti noi c’è una parte di Zeno»

TEATRO. Dal 25 gennaio al 2 febbraio l’attore sarà al Donizetti nei panni del protagonista de «La coscienza di Zeno» di Italo Svevo. «A me piace l’imperfezione, da qui nasce la voglia di stupirsi e di stupire».

La Stagione di Prosa della Fondazione Teatro Donizetti entra nel vivo con il secondo titolo in cartellone, «La coscienza di Zeno», dal romanzo di Italo Svevo interpretato nella parte del protagonista da Alessandro Haber, in scena da sabato 25 gennaio a domenica 2 febbraio. Diretto da Paolo Valerio, accanto al protagonista principale, ci saranno altri 10 attori: Alberto Fasoli, Valentina Violo, Stefano Scandaletti, Ester Galazzi, Emanuele Fortunati, Francesco Godina, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin e Giovanni Schiavo. L’adattamento è di Monica Codena e Paolo Valerio. Scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta, luci di Gigi Saccomandi, musiche di Oragravity e video di Alessandro Papa. La produzione è del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e GoldenArt Production. Gli spettacoli sono alle 20.30; domenica 26 gennaio e 2 febbraio alle 15.30. Ne abbiamo parlato con Alessandro Haber.

«Improvvisamente ho avuto un’illuminazione: non mi ricordo come e perché, ma ho capito che Zeno è un po’ Haber, ma un po’ anche tutti noi. In tutti noi c’è una parte di Zeno»

Haber, la sua autobiografia (scritta con Mirko Capozzoli) si intitola «Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)» e invece è diventato Zeno Cosini.

«Questa è carina, non me l’aveva detta mai nessuno. Sì, Baggini (il personaggio interpretato da Ugo Tognazzi in “Io la conoscevo bene”) c’è un po’ in tutti noi ma venendo allo spettacolo l’ho accettato a scatola chiusa. Non avevo mai letto “La coscienza di Zeno” però è un titolo importante e così mi sono detto: facciamolo. Ho letto la riduzione fatta dal regista e me ne sono subito innamorato. Ma sono entrato in crisi perché non sapevo da che parte prenderlo: chi è questo Zeno? Quando faccio un personaggio di solito parto da zero, mi metto a nudo, parto come un bambino appena nato, che apre gli occhi e comincia a guardarsi attorno, comincia a gattonare poi a camminare, insomma cresce. Ma a un certo punto volevo scappare, volevo farmi sostituire perché mi sentivo inadeguato, non capivo. Poi improvvisamente ho avuto un’illuminazione: non mi ricordo come e perché, ma ho capito che Zeno è un po’ Haber, ma un po’ anche tutti noi. In tutti noi c’è una parte di Zeno. È un inetto, un personaggio che mente sapendo di mentire, lui crede di essere sincero, pensa di non mentire e invece è tutto nel suo inconscio. È uno che nel giro di un’ora fa la corte a tre donne diverse e poi alla fine sceglie la più brutta perché in quel momento è in crisi, ha bisogno di essere coccolato, tradisce in maniera sconsiderata, è sempre in contraddizione. È come Mr. Magoo, gli capita di tutto: cade, si rialza, gli va sempre bene, ma è molto simpatico, mi fa tenerezza».

Ma siamo davvero un po’ tutti degli Zeno Cosini?

«Penso proprio di sì. È un uomo che vive la contemporaneità a mio avviso, e non invecchierà mai questo testo perché quando le cose sono belle, sono scritte bene, le puoi raccontare sempre. Non è un testo datato. La messa in scena, bellissima, ricorda un po’ un film in bianco e nero perché i film in bianco e nero stranamente sembrano quelli più colorati, perché i colori te li immagini tu, ce li metti tu, sono nel tuo immaginario».

«La messa in scena, bellissima, ricorda un po’ un film in bianco e nero perché i film in bianco e nero stranamente sembrano quelli più colorati, perché i colori te li immagini tu, ce li metti tu, sono nel tuo immaginario».

Nel romanzo ci sono due temi cruciali: il fumo e la psicoanalisi.

«Solo adesso mi rendo conto che è la prima volta che fumo in scena e il fatto di essere un fumatore... non si può capire il piacere, tanto che a volte mi viene voglia di invitare a salire sul palcoscenico qualcuno che vuole fumare. Anche se sento il disagio di qualcuno del pubblico, perché interagisco molto con il pubblico. Poi c’è la psicoanalisi… ».

Nello spettacolo «Il visitatore» con cui era venuto al Donizetti interpretava Sigmund Freud, in questo romanzo c’è la figura del dottor S. Qual è il suo rapporto con la psicoanalisi?

«Credo che se andassi da uno psicoanalista lo metterei in crisi, si farebbe psicanalizzare da me. In questo periodo ho avuto momenti di depressione, anche se non posso permettermi di averli perché sto bene, lavoro, ma insomma... Stavo per avvicinami alla psicoanalisi ma è come se avessi paura, non voglio scoprire tante cose di me stesso, mi sento bene con la mia confusione, mi sento bene sul palcoscenico o davanti alla macchina da presa, mi basta».

Nel romanzo si dice che «La vita non è né brutta né bella, ma è originale», è proprio così?

«È proprio così, a mio avviso se la vita fosse perfetta sarebbe meno affascinante. A me piace l’imperfezione, non la perfezione. Anche se poi quando lavoro cerco di dare il massimo, ma è dall’imperfezione che poi nasce la ricerca, la voglia stupirsi e stupire, di regalare e ricevere qualcosa. Mi accorgo che quando arrivo in teatro, quando sono in scena, poi in camerino è il momento in cui sto meglio, mi sento salvo».

Diventa quindi una sorta di seduta psicoanalitica.

«Bravo, una domanda centrata perfettamente. Questo personaggio è curioso, mi fa tenerezza, è interessante anche perché il regista ha ideato un doppio Zeno. È come se io facessi la regia di quello che sta accadendo, a volte fermo la scena e dico: “ma non è andata così”».

È molto legato a Bergamo e al Teatro Donizetti, è contento di tornarci?

«Molto. Tra l’altro mi viene in mente che la mia prima fidanzatina, avevo 14 anni, era di Bergamo. Si chiamava Luciana. Ero in vacanza a Milano Marittima o a Rimini, non mi ricordo, e conobbi questa Luciana che era di Bergamo. Poi Bergamo mi piace, il Teatro Donizetti è un teatro che conosco bene».

Concludendo possiamo dire che Zeno Cosini «c’est moi»?

«Sì, credo che sia uno spettacolo con una bellissima regia, mi piace molto, sono stato fortunato».

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