T roppo freddo per essere marzo e troppo freddo per essere un lunedì mattina. Ma, soprattutto, troppo freddo per essere l’alba successiva alla sconfitta nella partita in fondo più importante di tutta la sua militanza in serie A, per l’Atalanta. Quella che poteva portarla al primo posto in condivisione con Napoli e Inter, e che invece l’ha precipitata a meno tre dall’una e a meno sei dall’altra. Non sembra neanche marzo. Il profilo delle colline ha la limpidezza che gli donano soltanto certi mattini d’inverno. I tetti del paese e il campanile che li sovrasta quasi a protezione appaiono come in una vecchia cartolina. Il professor Caudano cammina verso il bar della sua colazione e forse rimpiange i tempi di Jesi, dove nessuno sapeva della sua fede calcistica e quindi i suoi rientri a scuola erano immuni dal risvolto forse più odioso di ogni sconfitta: gli sfottò dei rivali, e talvolta anche dei neutrali, perché sempre agli umani piace infierire su chi è in difficoltà. A Jesi, ogni rovescio dell’Atalanta era cosa solo sua: Elvio doveva risolverla solo dentro se stesso, digerirla, metabolizzarla, e tutto finiva lì. Potevano bastare dieci munti o servire dieci ora, ma doveva vedersela solo con il suo cuore. Ora, a Murazzano, è diverso. A Murazzano sanno della sua fede calcistica ed è normale che lui, in qualche modo, debba rendere conto. La sincera gioia di tutti, dopo Dublino, è stata l’altra faccia della medaglia: pacche sulle spalle, complimenti, chinotti e spume offerti a gogo. Normale che in questo ostico post Inter si debba aspettare, come minimo, qualche allusione scherzosa. Lui non maramaldeggia mai, e non lo ha fatto neppure settimana scorsa, in occasione dello 0-4 di Torino sulla Juventus, benché di bianconeri, in una bar del basso Piemonte, non ne manchino. Vorrebbe lo stesso trattamento. Lo meriterebbe, in fondo, mite com’è. Ma se il mondo conoscesse sempre ed ovunque il criterio della reciprocità, sarebbe un posto migliore. Sicché il buon Elvio non fa in tempo a ordinare cappuccio e brioche che la gragnola ha inizio. Un interista gli fa il segno del due con le dita, un bianconero gli insinua che oggi tocca a uno e domani all’altro, un tipo che si proclama sempre agnostico ma appassionato del bel calcio osserva che di bel calcio l’Atalanta contro l’Inter non ne fa vedere mai, “tranne, se non sbaglio, quella volta che vinceste 4-1 in casa e alla fine segnò il Papu da fuori, ma già nel primo tempo creaste duecento occasioni”, concede con il gusto di ostentare una ferrea memoria.