I ppolito è un ragazzo per lo più silente, ma non ombroso. Quel nome fra il solenne e l’antiquato deve derivargli dal nonno calabrese di cui ha parlato uno dei primi giorni. Ippolito ha un’aria nobile, un contegno sempre educato, ma il sorriso buono di chi sopporta serenamente le traversie della vita e non se ne adonta. Piuttosto alto, magro, studioso, porta nella sua classe prima, popolata da più di qualche bambino ancora immaturo, un che di adulto, una posatezza rara. Le compagne più timide e assennate certamente lo apprezzano, quelle più spavalde hanno altri cui pensare, dislocati già al triennio. Quando parla, Ippolito ha una voce calda e calma, e qualche consonante e qualche vocale che risentono della parlata avita, quella che ascolta in casa e che lo ha cresciuto da bambino. Ippolito è uno di quegli alunni che non danno problemi e cui il professor Caudano finisce per non pensare mai, preso com’è da quelli che lo fanno disperare, dalla preparazione delle lezioni, della correzione dei compiti e della burocrazia scolastica. Qualcosa del genere deve accadere, nelle famiglie, con i figli più tranquilli, che crescono quasi da soli, un po’ lasciati a se stessi. Uno degli ultimi giorni di maggio, però, suo malgrado, Ippolito è salito alla ribalta, proprio a causa di uno dei suoi compagni più immaturi: chissà chi, gli ha infilato nella borraccia un compasso rubato in un’altra classe, poi l’ha richiusa ben bene e ha sperato nell’incidente, cioè di poter ridacchiare vedendo Ippolito che magari si pungeva e buttava acqua dappertutto nel tentativo di bere.