N el calcio linea più breve per unire due punti è l’arabesco, parafrasando l’antico genio di Ennio Flaiano. L’Atalanta a Salerno ha disegnato il festival degli arabeschi, ma alla fine ha unito tre punti. E sono tre punti fondamentali. Tanto brutti nel modo, quanto belli per il peso che hanno nella stagione: quinto posto agganciato, con una partita in meno. Bologna a -4 che virtualmente vale -1, ipoteca pesantissima sulla prossima Europa, quantomeno nella versione Europa League. Tutto il resto è stato di rara bruttezza, ma questo è il calcio: uno sport in cui differenze abissali di valori possono appiattirsi quando una squadra è «dentro» la partita e l’altra no. L’Atalanta è andata a Salerno e subito, fin dai primissimi passaggi, s’è capito che le fatiche fisiche e mentali dei tanti impegni avevano spinto questa partita ai margini dei pensieri di tutti. E siccome la Salernitana è una squadra orgogliosa (l’Inter impari), e siccome Colantuono è un tecnico leale, ecco che ti ritrovi una squadra che corre il doppio contro una lentissima e che sbaglia praticamente tutto. Quando va così, finire in svantaggio è sostanzialmente una certezza. E tutt’altro che certo è raddrizzare partite nate così male e proseguite peggio. Per questo, alla fine, pur in fondo a una partita dimenticabile, averla vinta è un grande merito. E un segno di forza non secondario. Ora la testa si può ridisconnettere dal campionato e può pensare a quel che conta «più di tutto», come dice Gasperini: la finale di Europa League da conquistare, prima parte di un ciclo terribile che prevede in pochissimi giorni il ritorno con l’Olympique, la Roma per la Champions, la finale di Coppa Italia. Normale, dentro una centrifuga così, che la testa possa anche fare cilecca.