M ino Favini è uscito di campo, la vita per lui ha fischiato tre volte. Non riusciamo nemmeno a scriverlo, che Mino Favini è morto. Ma è così, è successo. Il «mister», il papà del vivaio atalantino come lo intendiamo da qualche decennio, non c’è più. Se l’è portato via un’ischemia cerebrale di qualche giorno fa, in seguito alla quale non ha più avuto la forza di riprendersi.
Quel che è stato Mino Favini per l’Atalanta è impossibile sintetizzarlo in poche righe. In una parola, potremmo dire che Mino Favini è stato uno stile, un modo di essere nel calcio. L’educazione, il rispetto, la semplicità, la competenza. Mai una parola fuori posto, principi ben saldi a guidarlo nel lavoro: i calciatori si prendono piccoli, sulla base del talento, delle «attitudini». E poi si costruiscono con la scuola calcio, insegnando la confidenza con la palla («piede-palla, coscia-palla, petto-palla, testa-palla»), i fondamentali. E accanto al calciatore si costruisce l’uomo. Non giocava, con Favini, chi da scuola non portava una pagella come si deve. Non giocava chi non rispettava l’altro, chi non si comportava educatamente. Disse una volta: «La mia peggior sconfitta? Quella volta che un addetto alla pulizia degli spogliatoi venne a dirmi che la mia squadra aveva lasciato un porcile».
Questo era Mino Favini: un uomo vero, limpido, che per anni ha condotto una battaglia contro i procuratori, contro i contratti fatti firmare ai giovanissimi, contro i genitori che a tutti i costi «esigevano» di avere in casa un campione e di sostituirsi all’allenatore, e contro chi andava dalle famiglie a riempirle di storie, pur di aver un aumento, un contratto, e magari cambiare aria.