T iriamo tutti un respirone. Da Liverpool ad Amsterdam, l’Atalanta ha vissuto il periodo forse più folle della sua vita. La sconfitta col Verona, il pareggio coi danesi, e da lì un crescendo da watergate, inclusa una grande dose di autolesionismo. Il campo è la miglior medicina, abbiamo detto e ripetuto in questi giorni. E così, speriamo con tutto il cuore, sarà. Perché l’Atalanta, la «piccola Atalanta», come qualcuno ancora incredibilmente la definisce, è arrivata per il secondo anno consecutivo agli ottavi di finale di Champions grazie a un capolavoro fatto da persone. Da una proprietà che programma ed esegue, da un allenatore che vede oltre, e da un gruppo di giocatori che via via si è rinnovato, ma nel segno di alcuni nomi che più di tutti, è inutile negarlo, hanno contribuito a costruire questo sogno.
All’ultimo passo prima della vetta la squadra è arrivata innegabilmente scossa dal cortocircuito di questi giorni. Da quel «no» detto da Gomez a Gasperini, e dall’assurdo accavallarsi di voci cui abbiamo assistito. A tutto questo la squadra ha risposto sul campo. Fin dai primi minuti quel che si temeva - il nervosismo tra compagni - non s’è visto. Si temeva Gomez «isolato» in campo: non è stato così. Si temevano le dimissioni di Gasperini a fine partita: non sono arrivate. Si temeva il «giocattolo rotto»: il giocattolo è capace di vincere ad Amsterdam, dopo aver vinto a Liverpool.