«Vorrei essere a Gerusalemme, ma il Signore mi ha voluto qui». La Messa con il cardinale Pizzaballa - Foto

CITTÀ ALTA. Nella serata di sabato 7 ottobre in Cattedrale la solenne celebrazione. «Ho bisogno delle vostre preghiere per riuscire a creare fiducia e speranza».

I rintocchi a festa del Campanone salutano l’ingresso del cardinale Pierbattista Pizzaballa in Cattedrale. Il neo porporato, accompagnato dal vescovo di Bergamo Francesco Beschi e dai vescovi nativi della terra orobica, varca la soglia del Duomo passando tra due grandi ulivi, simboli di pace oggi più che mai, a rappresentare due popoli - dirà monsignor Beschi nel suo saluto a Padre Pierbattista - «il cui destino non può essere di ostilità ma di riconciliazione» in una giornata tanto dolorosa, segnata dall’inizio di un nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi.

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Il pensiero e il cuore del cardinale Pizzaballa sono a Gerusalemme. Lo dirà più volte nel corso della solenne celebrazione eucaristica. «Vorrei essere lì - ammette -. Ma se il Signore mi ha lasciato qui, significa che è qui che devo essere». Nei banchi delle prime file siedono le autorità, il vicesindaco di Bergamo Sergio Gandi e la sindaca di Cologno al Serio – paese natale del patriarca di Gerusalemme – Chiara Drago, con le fasce tricolori, i cavalieri del Santo Sepolcro con i loro mantelli bianchi, e una rappresentanza di colognesi, «intrusi della provincia» li definisce scherzosamente il cardinale.

«Mi sento un po’ a disagio – esordisce – con tutte queste feste. È stata una giornata molto bella, densa di emozioni, che qualche volta hanno preso il sopravvento. Mi sono detto, calmati, il mondo è già stato salvato, e in questa giornata ricca di gioia ma anche di preoccupazioni, per il conflitto scoppiato in Israele, ho provato a prendere le distanze, a tenere la barra dritta».

Il cardinale torna sulla parabola della vigna, dal Vangelo secondo Matteo, che ha preceduto la sua omelia. «La vigna rappresenta il mondo, la Chiesa, e non è di nostra proprietà, noi ne siamo i custodi. Dobbiamo prendercene cura». Nelle Scritture - spiega il biblista - la vigna è la casa d’Israele. «In Terra Santa, dove è facile passare da un fallimento all’altro, bisogna coltivare la fiducia, continuare a credere nell’altro. Non è semplice, se hai il dolore dentro di te, credere che l’altro possa cambiare. In Medio Oriente le parole giustizia e fiducia sono complicate, eppure proprio lì va coltivata quella follia che ci fa ritenere che con l’altro si possa parlare, dialogare - dice l’uomo che ha dedicato la vita a costruire ponti, sulle orme di Papa Giovanni -. Oggi più di prima abbiamo bisogno di scommettere sull’altro».

Il cardinale Pizzaballa confessa con disarmante sincerità di non aver ancora capito cosa significhi essere cardinale, «ma lo imparerò strada facendo» assicura citando Mosè («Lo ascolteremo e lo faremo»). Il cardinalato «è un servizio», nel suo significato più profondo, «sarò voce per i più piccoli, quelli che nessuno ascolta, nella consapevolezza che per essere voce bisogna saper ascoltare ma anche orientare, saper dire i sì e i no necessari». Poi l’arrivederci a Gerusalemme, preceduto da una richiesta a tutti i presenti: «Ho bisogno delle vostre preghiere e del vostro sostegno per riuscire a creare fiducia e speranza».

Canti, note d’organo e di fiati hanno accompagnato la celebrazione, che ha avuto uno dei momenti più toccanti nella preghiera recitata a più voci in italiano, latino, ebraico e arabo. Dal vescovo Beschi, al termine della Messa, il dono di un effigie di Sant’Alessandro, «un segno di solidarietà, simbolo della nostra vicinanza. Noi ti accompagneremo là dove andrai», dice il vescovo Francesco. E in Cattedrale si leva un applauso che con un gesto della mano Padre Pierbattista a un certo punto interrompe. Tolti i paramenti sacri, il porporato si intratterrà con i tanti che lo vogliono salutare. Regalando un sorriso e una parola ad ognuno di loro.

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