«Un’équipe di donne mi ha salvato il cuore»

ASST PAPA GIOVANNI XXIII. Marco Origo ha una patologia che può causare morte cardiaca improvvisa: gli è stato impiantato un defibrillatore extravascolare sotto lo sterno. In campo aritmologa e cardiochirurga insieme a una anestesista.

Era in Colombia durante una trasferta di lavoro, poco meno di un anno fa, quando il suo cuore è come impazzito: «Avevo una spaventosa tachicardia e non capivo perché. Ero appena arrivato in Sudamerica, dopo oltre 26 ore di volo: ho cercato di calmarmi, mi dicevo che dopo un viaggio così lungo quel disturbo non doveva essere troppo preoccupante». Tornato in Italia, Marco Origo, 50 anni, sposato, una figlia di 22 anni, di Brivio (Lecco) lavora in una ditta di macchinari per produrre sapone e da anni viaggia in ogni angolo del mondo: «Quella tachicardia non mi era mai capitata prima, tornato in Italia ho raccontato l’accaduto al mio medico di famiglia che mi ha prescritto una serie di esami: ma non ho fatto in tempo ad eseguirli, perché sono stato male ancora. Vengo ricoverato a Merate e qui scoprono che soffrivo di una cardiopatia aritmogena». E, specificano gli specialisti, questa patologia può essere causa di morte cardiaca improvvisa, che non va confusa con l’infarto, dove si assiste al danneggiamento del tessuto muscolare del cuore; la cosiddetta morte cardiaca improvvisa ha come causa più frequente l’irregolarità del battito, molto rapida, in sostanza la tachicardia o fibrillazione ventricolare, causa principale di decesso per gli under 60 e responsabile del 50% delle morti imputabili a malattie cardiovascolari.

La prima soluzione

Per Marco Origo, al momento della diagnosi della cardiopatia aritmogena, viene deciso di impiantare un defibrillatore. Ma il cinquantenne non sta meglio, anzi: fin dall’impianto del defibrillatore transvenoso endocavitario, cioè all’interno del cuore (una terapia salvavita, perché interviene in caso di tachicardia o di pausa improvvisa del battito), lamenta un importante cardiopalmo, derivante dall’aumento delle extrasistole. «Ho deciso quindi di rivolgermi all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, consigliato anche dai medici lecchesi: a marzo di quest’anno vengo visitato dal cardiologo Attilio Iacovoni; inizialmente vengo trattenuto per l’ipotesi di un upgrade del defibrillatore, poi lo scenario è cambiato». Gli specialisti dell’ospedale Papa Giovanni, infatti, esaminano approfonditamente la situazione, per valutare l’eventuale sostituzione del dispositivo salvavita; questo tipo di defibrillatore, infatti, richiede il passaggio degli elettrodi attraverso i vasi sanguigni fino a raggiungere la parete cardiaca, ma c’è il rischio di occlusioni e di infezioni e vanno affrontate difficoltà nel caso si rivelasse necessario rimuoverli per sostituirli.

Nella valutazione su un nuovo impianto, Paolo De Filippo, responsabile dell’Elettrofisiologia, capisce che il catetere sollecita il ventricolo destro. «E questo provocava oltre a forti fastidi ulteriori aritmie, perché sollecitava il ventricolo destro che era già interessato dalla displasia aritmogena di cui soffriva il paziente – spiega l’aritmologa Paola Ferrari, dell’Unità di Elettrofisiologia – . Si era valutato di impiantare un defibrillatore sottocutaneo, che non ha elettrocateteri all’interno delle vene, ma per questo paziente non è risultato possibile, non soddisfava i criteri richiesti».

L’idea innovativa

Ed è a questo punto che arriva la proposta innovativa. «Si decide di tentare un’altra strada e sono stato decisamente fortunato – spiega Marco Origo – .Le specialiste del “Papa Giovanni” che mi hanno seguito, Paola Ferrari, aritmologa, e Caterina Simon, cardiochirurga erano all’estero proprio per studiare un nuovo dispositivo e questa tecnica». Ed è stata la prima volta, per il «Papa Giovanni»: il defibrillatore scelto è di ultima generazione, l’elettrocatetere, infatti, è extravascolare, cioè all’esterno del cuore e delle vene, e viene posizionato dietro lo sterno, in grado di prevenire la morte cardiaca improvvisa preservando il sistema venoso.

L’intervento è stato eseguito da un team tutto «in rosa» (con le due specialiste, infatti, anche l’anestesista Federica Pelliccioli): prima dell’impianto, spiega Marco «ho potuto sopravvivere grazie a uno speciale giubbotto, da indossare giorno e notte, che faceva da defibrillatore esterno: una vera tortura, perché andava costantemente riprogrammato e non puoi toglierlo mai, sennò il cuore va in tilt».

L’intervento è frutto della collaborazione di diverse professionalità del «Papa Giovanni», che in ambito cardiovascolare ha un modello organizzativo (Heart Team), che mette in campo per ciascun paziente le competenze di tutte le professionalità che animano il Dipartimento cardiovascolare. Il training è stato eseguito da Paola Ferrari e da Caterina Simon, della Cardiochirurgia, in un laboratorio vicino a Bruxelles. «Questo è il primo caso che abbiamo affrontato al “Papa Giovanni” con questo dispositivo; peraltro con una équipe al femminile, non sono molte le professioniste in aritmologia e in cardiochirurgia a lavorare insieme – spiega Caterina Simon – . Ma abbiamo già altri casi sotto valutazione. Il paziente sta molto bene e ha ripreso una vita normale». Marco, da Brivio, conferma: «Ho ripreso a lavorare, certo per un po’ non posso viaggiare in trasferta. Ma va tutto per il meglio: peraltro, questo defibrillatore neppure si vede».

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