Un edificio occupato e giacigli per le scale: la vita in stazione a ridosso dei cantieri - Foto

IL REPORTAGE. Pareti murate, giacigli di fortuna sulle scale e un edificio occupato a pochi metri dai treni per Brescia. I controlli ci sono, ma si fermano sul piazzale Marconi.

La scritta che campeggia in ogni angolo annuncia che la stazione «si fa bella». Il cantiere avanza e settimana dopo settimana cambia progressivamente il volto di un luogo che non è più quello di qualche mese fa e che è ancora lontano da somigliare a quello (moderno, funzionale, addirittura avveniristico) che sarà solo tra un paio d’anni. In mezzo a un passato di cui resta poca cosa, se non un ricordo ancora nitido, e a un futuro che neppure chi ha guardato e riguardato i progetti riesce ancora ad immaginare, c’è un presente fatto di lavori in corso, di binari provvisori, di passeggeri spaesati che ancora scendono verso il sottopasso per poi accorgersi che a funzionare è solo il primo binario, di ascensori «impacchettati», di rampe di scale che poco alla volta, una dopo l’altra, vengono murate. E di disagio. Quello che succede una ventina di gradini sottoterra lungo quei 200 metri che portano da piazzale Marconi all’uscita su via Gavazzeni, non ha nulla a che vedere con il concetto di sicurezza più o meno «percepita». È semplicemente lì da vedere. Qui i controlli non arrivano; si fermano in superficie, sul piazzale, dove il presidio delle forze dell’ordine è continuo (a rotazione, almeno una pattuglia della polizia di Stato, dei Carabinieri o della polizia locale non manca mai a pochi passi dalla fontana). Là sotto, invece, perdere le tracce dello Stato è questione di un attimo.

Quello che succede una ventina di gradini sottoterra lungo i 200 metri che portano da piazzale Marconi a via Gavazzeni, non ha nulla a che vedere con il concetto di sicurezza più o meno «percepita». Qui i controlli non arrivano; si fermano in superficie, sul piazzale, dove il presidio delle forze dell’ordine è continuo.

Ed è proprio dove lo sguardo fa più fatica ad arrivare che si aprono le porte del degrado. A dire il vero, quella che dà accesso alla «terra di nessuno» è soltanto una e si trova più o meno a metà del sottopasso, sul lato sinistro verso via Gavazzeni. È un’uscita di «sicurezza», che detta così sembra quasi una barzelletta. Il viavai, dentro e fuori da quella porta, è quasi ininterrotto. È solo accostata quando decidiamo di vedere cosa c’è dall’altra parte; l’apriamo del tutto scansandola con la punta della scarpa. Ci sono due rampe di scale che portano in superficie, un odore nauseabondo, nonostante l’apertura in alto, e delle macchie di sangue sui gradini. Usciamo da un’altra porta fatta a grata che dà su un piazzale sconfinato, tra la fascia di binari da un lato e via Gavazzeni dall’altro. Poco più in là, verso Boccaleone, c’è quel che resta dello scalo merci. Ad esserci, lì in mezzo, l’area sembra ancora più grande; è qui che sorgerà Porta Sud e l’auspicio – guardando la desolazione che si apre ai nostri occhi – è che accada in fretta. In mezzo ai rovi ci sono un paio di scarpe da lavoro, gli avanzi di uno o più pasti consumati al riparo da sguardi indiscreti, bottiglie rotte, brandelli di vestiti e tante, tante siringhe. A due passi è stoccato il materiale che servirà per andare avanti con i lavori di ammodernamento della stazione: chilometri di cavi, attrezzature in acciaio, materiale da cantiere.

Giacigli, coperte abbandonate e rifiuti

Ci incamminiamo verso i binari che in realtà non ci sono più: un cartello, adagiato per terra, invita a non attraversarli, in realtà dopo il secondo binario, che pure da mesi è inutilizzato, delle rotaie è rimasta solo la sagoma. Raggiungiamo la prima banchina e le scale che scendono verso il sottopasso: il passaggio non è di quelli che sono già stati murati, ma in fondo alle scale l’ingresso è interdetto da un robusto strato di legno compensato. A metà scala c’è un giaciglio: quello che sembra un materasso è rivestito di stracci e di coperte, più in basso c’è qualsiasi tipo di rifiuto. Un altro segnale del disagio che si nasconde al di là di una parete. Altre rampe sono state ripulite da poco, i sacchi dell’immondizia sono ancora appoggiati l’uno contro l’altro sulla banchina. Sono tanti e pieni zeppi di pattumiera.

La popolazione che si aggira in stazione è perlopiù straniera e in prevalenza maschile, ma girano anche donne di mezza età, soprattutto tra coloro che arrivano, si trattengono pochi minuti e se ne vanno, e senzatetto (forse) italiani.

Vivono a pochi passi dalla ferrovia

In lontananza, dopo la stazione proseguendo lungo il binario 1 verso est, notiamo un altro andirivieni sospetto. Rientriamo dal sottopasso e ci affacciamo sulla banchina; i treni da e per Milano partono ad ovest, quelli per Brescia ad est, ma per raggiungere il punto in cui si fermano i treni, bisogna camminare per duecento metri fuori dalla stazione, attraversando il parcheggio a pagamento di fronte allo stabile dell’ex dopolavoro ferroviario. Da dentro non si può passare, o meglio non si potrebbe, perché la recinzione è aperta e il varco non è presidiato. È qui che scopriamo che arrivare sull’altro lato dell’edificio, quello dismesso, è molto più facile di quanto si possa pensare. Lasciandoci alle spalle lo stabile della stazione, riusciamo a scorgere un traffico di persone sempre più intenso: gente che va e che viene, personaggi che spuntano da un anfratto, mettono le mani in un carrello della spesa riempito di vestiti e di sacchetti e si avviano verso i nuovi arrivati. Ci sono almeno due, tre tipologie diverse di frequentatori: quelli che arrivano, spariscono per un attimo dietro l’edificio, poi tornano e se ne vanno; quelli che arrivano per restare e altri ancora che fanno la spola tra dentro e fuori l’edificio e che non hanno alcuna intenzione di muoversi da lì. Ormai quella è terra loro: vivono sommersi di rifiuti, che in parte coprono la vista dell’accesso ai locali. Abbiamo tanti occhi addosso, ma qui la gente va e viene senza dire niente a nessuno, squadrandoci dalla testa ai piedi, ma senza scomporsi. In corrispondenza con l’ultimo settore dell’edificio, sulle inferriate sono stesti dei panni; difficile dire se si tratti di stracci lavati e appesi ad asciugare, o di un tentativo di nascondere ciò che accade lì dietro. Qui la popolazione è perlopiù straniera e in prevalenza maschile, ma girano anche donne di mezza età, soprattutto tra coloro che arrivano e se ne vanno, e senzatetto (forse) italiani.

Una zona franca

È come ritrovarsi in una zona franca dove il disagio sociale prolifera a distanza di una manciata di metri dalla vita che, al di là di un cancello accostato, continua a scorrere frenetica e quasi impassibile. La nostra visita dentro il cantiere diffuso della stazione termina al punto di partenza, su quel piazzale Marconi presidiato ogni ora del giorno dalle forze dell’ordine, perché spesso al centro delle polemiche sulla sicurezza in città. Come se tutti i problemi di fermassero lì.

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