Tumore e Covid, l’uomo rinato due volte: «Uscito dall’ospedale, mi sono sposato»

Rodolfo Pandini, ex direttore delle Poste, si è rimesso in gioco più volte, anche negli studi con due lauree a 50 anni. «Del periodo in coma mi ricordo sogni un po’ bizzarri in cui combattevo vere battaglie». «Ora voglio concentrarmi solo su ciò che è veramente importante».

«Senza rinascita - scrive Maria Zambrano, poetessa e filosofa - niente è del tutto vivo». Lo ha sperimentato più volte nella sua vita Rodolfo Pandini, 63 anni, di Bergamo, quando ha scelto di riprendere gli studi e - allo scoccare dei 50 anni - ha ottenuto due lauree, quando ha affrontato e superato un tumore all’intestino, e infine nel momento in cui il Covid lo ha costretto a un lungo ricovero in ospedale, in terapia intensiva per quaranta giorni. Appena uscito dall’ospedale ha deciso di sposarsi: un momento che ha segnato uno spartiacque, aprendo un nuovo orizzonte in un momento cupo. Ogni volta, anche se in forme diverse, ha provato su di sé un profondo processo di rigenerazione, con la sensazione di lasciarsi alle spalle la vecchia pelle, come accade a un bruco che si trasforma in farfalla.

La morte della madre

La pandemia ha colpito duramente la sua famiglia, ha portato via sua madre. «È stata ricoverata pochi giorni prima di me - spiega Rodolfo -. Purtroppo era già fragile, lottava da tempo con un tumore e non ce l’ha fatta a superare anche il Covid, ma l’ho saputo solo quando ormai stavo per essere dimesso».

L’università per lui è stata una sfida: «Mi è rimasta la voglia di imparare, mi dispiaceva di aver interrotto gli studi dopo il diploma, perciò sulla soglia dei cinquant’anni mi è venuta voglia di mettermi in gioco, di migliorare. Fa parte del mio carattere: butto sempre la bandiera al di là delle linee nemiche, non so vivere senza pormi degli obiettivi. Così mi sono iscritto prima alla Facoltà di Scienze Politiche con indirizzo economico, laureandomi nel 2002 e poi ho seguito i corsi di Economia e commercio, ottenendo la seconda laurea nel 2012».

Gli studi e il cancro

Fra un corso di studi e l’altro, Rodolfo ha scoperto di avere un tumore all’intestino: «È stato un periodo difficile - osserva - dopo la diagnosi, nel 2011, ho dovuto affrontare un intervento e poi sottopormi a un ciclo di chemioterapia. Nel frattempo stavo preparando la tesi, ma questo mi ha aiutato a reagire, offrendomi le motivazioni giuste. Dovevo comunque andare ogni giorno all’Università e a volte mi ritrovavo addormentato sul tavolo della biblioteca perché l’effetto delle terapie si faceva sentire. Il docente relatore della tesi, però, non mi ha fatto sconti, mi ha tenuto comunque sotto pressione per stimolarmi a concludere nel modo migliore, e anche questo è stato fondamentale, così sono riuscito a lanciare il cuore oltre l’ostacolo».

L’argomento della tesi ruotava intorno a problematiche di politica monetaria internazionale, valore del denaro, scambi internazionali, bilance dei pagamenti, tassi: «Quando l’ho discussa - spiega - avevo appena finito la chemioterapia. L’unico rimpianto che mi è rimasto è di non aver potuto poi sfruttare le competenze acquisite anche nel mondo del lavoro».

La febbre a fine febbraio

Rodolfo, infatti, è appena andato in pensione e in quegli anni dirigeva un ufficio postale: «Nel periodo in cui ero studente e lavoratore i ritmi sono stati intensi: lavoravo fino alle due, poi tornavo a casa e dopo pranzo ricominciavo a studiare, almeno fino a mezzanotte. Nonostante la fatica questo impegno mi ha reso felice, mi ha permesso di realizzare un mio sogno. Poi mi sono comunque impegnato per valorizzare ciò che avevo imparato soprattutto nel metodo, nell’organizzazione».

La pandemia l’ha colto di sorpresa, come molti altri, perché si è ammalato subito, il 28 febbraio, solo una settimana dopo la segnalazione dei primi casi all’ospedale di Alzano. «Avevo la febbre - racconta - e dolori alle ossa. I sintomi all’inizio sembravano quelli di una comune influenza, e i farmaci abituali come il paracetamolo sembravano efficaci. Poi però mi sono accorto che i disturbi non si risolvevano, anzi le mie condizioni continuavano a peggiorare. Ho iniziato ad avere seri problemi di carattere respiratorio». Rodolfo, avendo superato bene il tumore, senza ricadute, non avrebbe mai pensato di trovarsi tra i «soggetti a rischio»: «Andavo in palestra per due o tre volte alla settimana, cercavo di mantenermi in forma e nel complesso le mie condizioni erano buone, perciò non mi aspettavo di ammalarmi in modo grave».

Il ricovero in terapia intensiva

L’8 marzo, invece, proprio quando iniziava il primo lockdown, è stato ricoverato in ospedale all’Humanitas Gavazzeni: «Mi avevano messo il casco cpap per la ventilazione, e nei primi giorni sembrava che migliorassi, così avevano addirittura deciso di riportarmi nel reparto di degenza. Poi però ho avuto un nuovo crollo, finché la mia capacità respiratoria è scesa fino al 10 per cento. Stavo malissimo e hanno dovuto trasferirmi in terapia intensiva. Era il 14 marzo, a Bergamo era il momento peggiore, quel reparto si era riempito rapidamente, così hanno dovuto trasferirmi all’Istituto di Cura Città di Pavia, affidato alle cure dell’equipe guidata dal dottor Guido Bellinzona, a cui devo una profonda gratitudine. Sono stato trattato con grande umanità e attenzione, mi hanno salvato la vita. Non è stato affatto facile, sono rimasto incosciente in stato di coma per 40 giorni. Dopo il risveglio mi hanno riportato a Bergamo dove sono stato ancora per un mese in terapia sub-intensiva e poi per un altro mese alla clinica San Francesco per la riabilitazione».

Il contagio è avvenuto in un periodo in cui ancora non c’erano restrizioni: «Come direttore di un ufficio postale - racconta Rodolfo - mi capitava di incontrare molte persone e di avere con loro colloqui prolungati, perciò è naturale che fossi più esposto, anche se per necessità di quel momento al di fuori dell’ambiente di lavoro non avevo un’intensa vita sociale». Conserva immagini frammentate dei giorni del ricovero: «Ogni tanto mi tornano in mente immagini dell’ospedale e di medici al mio capezzale, ma non sono certo di averle viste davvero. Quando sono arrivato a Pavia ero già intubato. Hanno dovuto praticarmi la tracheotomia e somministrarmi un farmaco perché il mio cuore, nonostante la sedazione, superava i 150 battiti al minuto. Il risveglio è stata una lenta conquista, compiuta a piccoli passi: c’erano momenti in cui la coscienza riaffiorava, alternati a momenti di sonno profondo che gradualmente diventavano più brevi. Di questo periodo ricordo sogni un po’ bizzarri, in cui aiutavo le persone a risolvere problemi oppure combattevo battaglie per la pura sopravvivenza. In ogni caso ricordo di averlo trascorso in uno stato di turbamento, fatica, agitazione. Quando mi sono svegliato avevo ancora il respiratore, anche quando mi hanno trasferito in terapia sub-intensiva continuavo ad aver bisogno di aiuto per respirare. Il momento più bello è arrivato quando finalmente ho potuto riprendere i contatti con il mondo, chiamando Loredana, la mia fidanzata, che poi è diventata mia moglie. Anche lei ha avuto il Covid ma in forma molto più leggera, nonostante mi fossi isolato subito per non contagiarla. Anche se non potevamo parlarci nel periodo del ricovero sapevo che mi era vicina».

Il sostegno della fede

In tutto questo periodo Rodolfo ha potuto contare anche sul sostegno della fede: «Ho saputo in seguito che si erano formati gruppi di preghiera per me, che si erano estesi per passaparola tra parenti, amici e conoscenti. Mi ha colpito molto scoprire che c’erano persone che pregavano tutti i giorni per la mia salute. Sono sempre stato un praticante un po’ scadente, ma per me la fede è una certezza, che dopo questa esperienza si è rafforzata. Questo mi ha poi aiutato anche ad affrontare la perdita di mia madre, che è morta il 28 marzo a 84 anni. Sono tornato definitivamente a casa alla fine di giugno, e nonostante la riabilitazione mi sentivo ancora molto debole, riuscivo a malapena a muovermi. Ho perso 17 chili, mi sono rimasti alcuni postumi di carattere polmonare e qualche problema al cuore, ma ora sono comunque riuscito a recuperare bene, anche dal punto di vista motorio: ho avuto il mio calvario e la mia rinascita».

La malattia ha portato nella vita di Rodolfo un cambiamento profondo, non solo fisico ma interiore: «Mi sono accorto che la mia sensibilità si è acuita, forse proprio per merito di una nuova consapevolezza della mia fragilità. Ho imparato ad apprezzare ancora di più le qualità umane delle persone. Aver avuto accanto Loredana, che è stata molto presente, mi ha accompagnato in ogni momento, mi ha fatto capire l’importanza di circondarmi di relazioni di valore».

La luce con il matrimonio

Il matrimonio è stato un passo importante per tornare alla luce: «Ne avevamo parlato, ma senza avere maturato del tutto la decisione. Il mio ricovero ha segnato una brusca interruzione, un periodo di silenzio, ma mi ha aiutato a riflettere. Così non appena la situazione è migliorata ho pensato che fosse arrivato il momento di tirare fuori l’argomento. Per Loredana è stata una grande sorpresa, per entrambi un momento di grande felicità e spero che ci porti una nuova fase di bellezza, una vita condivisa e vissuta in pienezza. Quando è arrivato il giorno della cerimonia riuscivo a malapena a camminare, ma ero davvero contento e pronto per questo nuovo inizio. Abbiamo festeggiato in modo semplice con un brindisi nel giardino di casa con pochissimi familiari e amici». È stata una parentesi di gioia in un momento buio: «Il recupero ha inciso anche sul mio carattere, ha ridefinito le mie priorità. Mi ha fatto riscoprire l’importanza della famiglia, degli amici. Ora sento la responsabilità di impegnarmi per aiutare gli altri, per i valori più autentici, concentrandomi solo su ciò che è veramente importante».

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