Cronaca / Bergamo Città
Venerdì 11 Ottobre 2024
«Truffata sulle opere d’arte. Così mi sparirono 100 milioni»
IL CASO. La cognata dell’ex sindaco Gori parte civile al processo a carico del manager Cerea: «Mi fidavo di lui». La difesa punta sulla pista svizzera.
Nel dettaglio non riesce a entrare, perché – confessa – i documenti li firmava senza leggerli, anche se operazioni e investimenti ogni volta erano da decine di milioni di euro. Cristina Caleffi, 61 anni, figlia di un industriale novarese e moglie dell’infettivologo Andrea Gori, fratello dell’ex sindaco Giorgio, si fidava ciecamente di Gianfranco Cerea, manager 59enne esperto d’arte e collezionista d’alto livello (sua una delle quattro copie al mondo del «Bacio» di Hayez), condannato in via definitiva a 3 anni per false dichiarazioni nella Voluntary disclosure (Vd) e ora a processo per truffa, tentata estorsione, autoriciclaggio e appropriazione indebita. Per il pm Emma Vittorio, l’imputato avrebbe proposto alla signora Caleffi (inesperta del campo, come da sua stessa ammissione: «Per me erano solo forme di investimento») di far fruttare il denaro acquistando da società a lui riconducibili opere d’arte che avrebbe sovrastimato. Il risultato lo ha aritmeticamente e amaramente illustrato ieri - durante la deposizione che assomiglia a quella resa nel 2021 al processo di primo grado contro Cerea per la Vd - la cognata dell’ex sindaco, ora nelle vesti di parte civile: «Pensavo di avere opere d’arte per 130 milioni, dopo una stima che ho commissionato alla società “Open Care” è risultato che il valore è di 26 milioni».
Lui nel 2007 le aveva curato la cessione delle quote dell’azienda di famiglia che aveva fruttato alla 61enne 133 milioni di euro. «Al termine - racconta lei - Cerea mi sottopose una parcella da 28 milioni. Rimasi scioccata, ma la cifra era indicata nel mandato, che io non avevo letto. “Questi soldi mi sono dovuti”, mi disse. E mi propose che se avessi continuato a fargli gestire il capitale, mi avrebbe fatto guadagnare di più». I primi investimenti sono da 102 milioni, principalmente in quote societarie che Cerea farà progressivamente dismettere, puntando sulle opere d’arte. «Io avevo bisogno di investimenti tranquilli e sicuri, quei soldi erano la mia cassaforte - confessa Caleffi -. Lui mi spiegò che le opere d’arte mantengono il loro valore e sono facilmente liquidabili». Gli acquisti proverrebbero - per l’accusa - da Capitalart e altre società riconducibili a Cerea. Trenta i milioni sborsati nella prima fase, tra il 2005 e il 2013, per 46 opere.
«Era lui che mi indicava il prezzo, io provvedevo a fare bonifici - ricorda lei -. Le opere venivano amministrate da Cerea». La seconda tranche parte nell’estate 2015, con acquisiti «in parte dalla società Stanze Italiane, in parte dallo stesso Cerea». Caleffi si ritrova proprietaria di altri 2.000 pezzi, per un valore che lei riteneva di 100 milioni, ora custoditi in un capannone. Tra questi una tela del Canaletto per la quale Cerea aveva preteso «8 milioni». Alla luce dell’expertise di «Open Care» sarà valutata 400mila euro. Nel 2020 la donna chiede di poter disinvestire per recuperare liquidità. E qui, di fronte alle risposte vaghe di Cerea, si insospettisce decidendo di far valutare il suo patrimonio alla «Open Care». Caleffi per la vicenda della Vd di Cerea viene indagata per riciclaggio e poi archiviata. Prima e dopo gli interrogatori della Gdf, è il suo racconto, subisce pressioni da Cerea e da due persone a lui legate perché ritratti. Da qui l’imputazione di tentata estorsione. «Mi resta una casa a Milano, che ho pagato due volte», s’avvilisce la 61enne, riferendosi ad altri presunti magheggi di Cerea.
«Signora Caleffi, ha conti all’estero?», chiedono i difensori Monica Bellani ed Enrico Mastropietro. «No», è la risposta. Al che i legali annunciano di essere in possesso di documenti contabili di una banca di Lugano riconducibili alla famiglia Caleffi. «A che servono in questo processo?», domanda il giudice Alice Ruggeri. Bellani: «Riguardano l’attendibilità della signora».
© RIPRODUZIONE RISERVATA